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C'era una volta la baraccopoli dei Parioli: così vivevano gli immigrati italiani prima delle Olimpiadi del 1960

Due ricercatori del Cnr, Michele Colucci e Stefano Gallo, hanno intervistato un ex baraccato: "I miei genitori erano calabresi, sono nato e cresciuto tra lamiere e casupole in muratura a due passi dai ricchi"

Prima del Villaggio Olimpico, costruito in occasione delle Olimpiadi ospitate da Roma nel 1960, tra Flaminio e Parioli vivevano centinaia di immigrati italiani. Provenienti per la maggior parte da Calabria, Sicilia, Campania, Puglia, Abruzzo e Basilicata, interi nuclei familiari trovarono rifugio tra baracche di legno, casupole in muratura, capanne in lamiera tirate su in pochi giorni e alla bell'e meglio: Campo Parioli. A pochi passi dagli attici abitati dalla "Roma bene" si consumavano le vite di chi, in cerca di un lavoro e di una vita migliore, non aveva ancora accesso agli alloggi popolari. 

La loro storia viene raccontata all'interno di un volume,  “Le strade per Roma. Rapporto 2021 sulle migrazioni interne in Italia” appena pubblicato dalla casa editrice Il Mulino, a cura di Michele Colucci e Stefano Gallo. In particolare, i due ricercatori del Cnr-Istituto sugli studi del Mediterraneo hanno intervistato Francesco Carchedi, sociologo ed ex docente alla Sapienza, nato nel 1950 proprio a Campo Parioli. 

“Le strade per Roma. Rapporto 2021 sulle migrazioni interne in Italia”

La storia di Francesco: dalla Calabria ai Parioli per una visita medica

"I miei genitori erano dei contadini calabresi di un piccolissimo paese che si chiama Filadelfia, che sta sulle colline dietro Pizzo Calabro - racconta Carchedi - . I miei vengono a Roma da Filadelfia perché mamma aveva perso tre bambini. Filadelfia sta sulle colline verso sud della Piana di Sant'Eufemia verso Pizzo Calabro ed era una zona paludosa, ancora negli anni Cinquanta c'erano diverse sacche di malaria. I tre fratellini che mi hanno preceduto erano morti, mamma ha sofferto molto e ha chiesto a papà di fare una visita specialistica e dei controlli medici". Quella che doveva essere solo una trasferta per motivi di salute si trasforma in un cambio di vita completo: la famiglia Carchedi si stabilisce al Flaminio, in una delle tante baracche di migranti italiani. E' la fine degli anni '40, il flusso migratorio è continuo e Roma è la tappa finale per migliaia di persone. 

"Il borghetto dove abitavamo era composto in parte di case in muratura, altre no - continua il sociologo - . Vicino alla casetta dove poi io sono cresciuto c'erano delle vecchie stalle militari che erano state alla meno peggio risistemate. Molte famiglie abitavano in questi stanzoni, c'erano delle tende divisorie. Altre erano invece in muratura, come quella che aveva fatto papà. C'era una specie di piazzetta, dove intorno però c'erano le varie casupole a corona, quasi concentriche".  

Arrivano le Olimpiadi: i baraccati ottengono le case popolari

Tra il 1957 e il 1958 l'amministrazione comunale inizia a sfollare la baraccopoli: di lì a poco dovrà sorgere il quartiere riservato agli atleti impegnati nelle Olimpiadi. "C'era questa pratica di costruire dei borghetti - ricorda Carchedi - sapendo che prima o poi venivano assegnate le case popolari. Io poi l'ho verificato anche successivamente, perché all'inizio degli anni Settanta a Roma c'è stato un grande movimento per la casa che ho vissuto direttamente. C'era però ancora questa tecnica che le persone, operai soprattutto, costruivano questi piccoli borghetti, anche in sintonia con il Partito comunista o anche con la Democrazia cristiana, e dopo 4 o 5 anni c'erano i censimenti per l’assegnazione della casa". "Queste persone venivano censite e poi iniziava la costruzione delle case popolari - ricorda ancora Carchedi - , a volte anche nei dintorni di quelli che erano ormai ex borghetti. Questo è successo ad esempio a Pietralata. Queste operazioni venivano anche concordate con i partiti e con le amministrazioni. La componente di migrazione interna tra i protagonisti era molto marcata". 

I senza casa di ieri e di oggi: "Ora si etnicizza il dibattito"

Ed è proprio sul tema della casa che verte una delle principali differenze tra le baraccopoli di allora e quelle di oggi, chiamate erroneamente (e in maniera ipocrita) "campi nomadi" o "villaggi della solidarietà", come spiega Michele Colucci a Roma Today: "Per molti anni la città di Roma ha avuto insediamenti informali e la presenza di centinaia di migliaia di immigrati che avevano problemi simili a quelli di oggi - sottolinea il ricercatore -, ma nel dibattito pubblico non si poneva una questione di etnicizzazione, ma si discuteva di diritto alla casa e di lavoro precario. Si parlava di case popolari. Il fatto che questo problema lo avessero gli immigrati finiva in secondo piano. Oggi invece il dibattito si è capovolto e si parte dal fatto che siano stranieri". E l'opinione pubblica, in buona parte, mal digerisce che i rom ( in gran parte cittadini italiani) vengano inseriti nelle graduatorie per ottenere un alloggio popolare.  

L'arrivo nelle case popolari di Val Melaina-Tufello

Nel 1959 la famiglia di Francesco si trasferisce in una casa popolare appena costruita, in via delle Isole Curzolane tra Val Melaina e Tufello, oggi Municipio III. "Quando siamo andati nella nuova casa tra Val Melaina e Tufello era il '59 - continua Carchedi - avevo 9 anni, ho anche cambiato scuola. Prima andavo alla Guido Reni. È chiaro che questo passaggio mi ha molto squilibrato, perché un bambino con i suoi amichetti costruisce un suo universo e quando cambia gli amici l'universo si modifica. Lì nella nuova scuola avevo un solo amico proveniente dalla precedente scuola, ma divenne alcolizzato giovanissimo, quindi sono rimasto da solo". E in classe le differenze tra romani e "tutti gli altri" si sentono, sono gli stessi bambini a rimarcarle: "Il peso della provenienza migratoria era molto forte - ammette - . Dopo i nati a Roma si dipanavano tutta una serie di piccole gerarchie in base alla vicinanza da Roma. Quindi gli abruzzesi erano quelli più fortunati, poi c'erano quelli di Caserta, poi a scendere i calabresi e poi in ultimo i siciliani. Io ero nato a Roma, però non contava". Ma nella nuova casa ("eravamo al quarto piano, dovevo portare su e giù la bici per le scale ogni volta, ma almeno entrava tanta luce") c'era una doccia, una vera cucina dapprima alimentata a carbonella e poi a gas: "Ma le bombole erano sicure - conclude Carchedi - non come a Campo Parioli, dove ogni tanto ne esplodeva qualcuna". 

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