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Magliana Muratella / Via Luigi Candoni

“Da 13 anni nel campo rom di via Candoni, ecco perché ho diritto a una casa popolare”

Vassile, panettiere, abita nel campo di via Candoni con la famiglia di dieci persone dal 2000. Ha fatto due domande per accedere ad alloggi pubblici ma ormai ha perso la speranza

“Sono a Roma da 14 anni, ho un lavoro, la cittadinanza italiana, i documenti. Da questo campo voglio andare via”. Vassile è arrivato dalla Romania nel '99, risiede con la famiglia in via Candoni e fa il panettiere. Il suo è uno degli oltre cento container del campo rom nascosto nel verde tra Magliana, Muratella e Casetta Mattei. Tra figli e nipoti vivono in dieci in tre stanze. 

“Ho fatto due domande per alloggi popolari, ma niente, non ce lo danno. Non capisco perché”. Il miraggio di Vassile è una casa. La prima richiesta al Comune l'ha fatta nel 2000, appena ha trovato lavoro. La seconda a gennaio scorso: la ricevuta di ritorno è arrivata a settembre. Non si dà pace, perché, ripete come un mantra: “Ho tutto in regola, ho un'occupazione, i miei figli sono cittadini italiani”. Ma la casa non arriva, e i racconti degli amici aggiungono al danno la beffa. 

“A Milano delle persone che conosciamo ci hanno detto che hanno avuto le case, i campi non ci sono più, a qualcuno hanno dato dei soldi per tornare in Romania e vivere lì. Perché a Roma è così?”. Loro in Romania non ci tornerebbero comunque, “perché lì si vive ancora peggio”, né si sposterebbero in città più 'accoglienti', “perché cambiare vita un'altra volta è troppo difficile”. 

Un affitto? “Porto a casa 1000-1200 euro ma siamo in dieci, dove andiamo in dieci? E' impossibile trovare un posto, non ho abbastanza soldi per pagarlo e campare tutti”. Restano in attesa, consapevoli che il miraggio potrebbe rimanere tale. E raccontano di quel campo che sembra l'inferno.

Il campo rom di via Candoni

“Quando siamo arrivati, nel 2000, era un vero villaggio, era bello, stavamo bene, anche perché noi eravamo solo cinque, io, mia moglie e i nostri tre figli”. Poi la famiglia si è allargata, il container è rimasto lo stesso, e a popolare il campo sono arrivati decine e decine di nuovi residenti. “L'ex sindaco ha portato qui tanti slavi dal Casilino 900, prima le baracche erano 65, ora sono almeno 150, non ci stiamo più, non si respira, non c'è aria”. Nè fuori, né dentro. 

“Ho dovuto aggiungere da solo una piccola cameretta, so che è abusiva ma ho chiesto di avere più spazio e non mi è stato dato”. E poi c'è l'umidità insopportabile dalle pareti. “Sono tutte di metallo, passa il freddo, i miei nipoti sono sempre influenzati, mia moglie non sta bene”. 

Non c'è spazio sufficiente per tutti, il campo è affollatissimo. E sporchissimo. L'ingresso è una montagna di rifiuti e i bambini, giocando, se li tirano addosso. “Non è possibile pulire, ci sono troppe persone, non è controllabile, vanno tutti a cercare il ferro nei cassonetti e l'immondizia resta per le strade”. Mentre in casa, nel loro container, la famiglia tiene tutto perfettamente in ordine. “Quando qualcuno viene da fuori e vede la nostra casa rimane senza parole e ci dice 'ma come voi siete zingari è strano che vivete così'”. 

Non senza ironia Georgescu parla di sé come di uno “zingaro”. Ma ci tiene a sottolineare che è diverso dagli altri e prova a smontare lo stereotipo del rom “che ruba e puzza”. “Non siamo tutti uguali, ci sono tanti tipi di rom, la mia famiglia ha provato a integrarsi, io mi trovo bene con gli italiani, vorrei che i miei figli potessero vivere fuori da qui, potessero avere un'educazione diversa”. La preoccupazione è soprattutto per Francesca, la figlia 13enne, appena adolescente, bella, esca troppo ghiotta per i ragazzetti che si aggirano nel campo. 

“Ho paura per lei. I ragazzi rom fanno tutto prestissimo, e quando vogliono una ragazza la prendono senza 'chiedere', insomma abbiamo paura che la rapiscano, per sposarla. Qui usa così, ma noi non vogliamo”. Interviene anche la madre: “E' la tradizione rom che prevede il matrimonio dei ragazzi molto giovani, ma a volte succedono cose inimmaginabili qui dentro, potrebbero anche rapirla”. 

Insomma, se ne vogliono andare al più presto. Non rinnegano le origini  - “siamo zingari” - ma rivendicano con orgoglio un'educazione di un certo tipo, che i figli hanno imparato a scuola, da romani. Hanno provato a integrarsi, ma abitare a Candoni è un limite invalicabile: “Non posso sentirmi italiano”. 

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