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Sabato, 20 Aprile 2024
Politica

La Capitale tra debito e Olimpiadi, Berdini racconta "Il fallimento di Roma"

Romatoday pubblica "Il fallimento di Roma", il contributo che l'importante urbanista Paolo Berdini ha scritto per il libro 'Rome Nome plurale città' (Bordeaux Edizioni). Indiscrezioni vedono l'urbanista come possibile assessore per un'eventuale giunta Raggi

Roma è una città fallita? Da una parte le promesse sul debito, una sorta di grande voragine che ingurgita ogni anno milioni di euro dei cittadini romani. Dall’altra la battaglia elettorale sulle Olimpiadi del 2024, proposte come una medicina alle difficoltà della città, la posizione di Giachetti (Pd), al contrario come una macchina spendi soldi che potrebbe distrarre Roma dalle necessità dettate dall’ordinario, la posizione di Raggi (M5S).

Romatoday pubblica un importante contribuito dell’urbanista Paolo Berdini, che in molti vedono in pole position per la carica di assessore per un'eventuale giunta Raggi, pubblicato sul libro ‘Rome nome plurale di città’ (Bordeaux Edizioni) che raccoglie una serie di importanti contributi sulla Capitale, da Tomaso Montanari a Igiaba Scego (Qui tutte le info sul libro).

Berdini, noto urbanista, impegnato in attività di pianificazione e consulenza per le pubbliche amministrazioni, ha pubblicato diversi libri su Roma. Tra i suoi lavori, ha collaborato con Italo Insolera all’aggiornamento di un volume fondamentale per la storia dell’urbanistica capitolina, Roma Moderna. Negli ultimi giorni, voci sempre più insistenti, ma non confermate ufficialmente, lo indicano come possibile assessore all’Urbanistica della giunta di Virginia Raggi in caso di vittoria.

Ecco quanto scrive Paolo Berdini in 'Rome Nome città plurale'

All’inizio del mese di aprile 2016 il commissario governativo al debito della capitale, Silvia Scozzese, magistrato della Corte dei Conti, ha certificato che il debito consolidato della città è pari a 12 miliardi e che a breve è prevedibile una grave crisi di liquidità. Il commissariamento del bilancio di Roma è iniziato nel 2008: sono dunque passati 8 anni e sono state esperite tutte le strade per sanare la voragine che inizialmente raggiungeva i 22 miliardi: nel 2011 è stata creata una bad company, il vecchio comune di Roma su cui scaricare il debito; negli anni successivi il governo centrale ha stanziato aiuti a fondo perduto; infine, i cittadini romani sono costretti a pagare le aliquote fiscali più alte di tutta l’Italia. 

Nonostante questo sforzo gigantesco, dunque ogni romano ha un debito di circa 4.600 euro: la capitale è una città fallita. Secondo i parametri fissati dalle leggi varate nel periodo del governo Monti, infatti, i governi centrali potrebbero in ogni momento decretare il fallimento di Roma. Non lo fanno sia per l’artificio contabile di aver attribuito i debiti a una figura istituzionale che non esiste più (il comune di Roma sostituito da Roma capitale) sia per gli evidenti contraccolpi d’immagine che ricadrebbero sul sistema paese: certificare che la sede del Parlamento repubblicano e degli istituti fondamentali della democrazia rappresentativa ha raggiunto la bancarotta avrebbe una evidente ricaduta sull’insieme delle istituzioni repubblicane.

Ma se si è fin qui riusciti a evitare la sanzione ufficiale del fallimento, è indubbio che la città in dissesto smette di pensare al suo futuro e vive di espedienti mediatici finalizzati esclusivamente a perpetrare il sistema di potere dominante. Roma è una città abbandonata a se stessa, senza un orizzonte da perseguire: concreta metafora della mancanza di prospettive in cui si dibatte il sistema paese da anni costretto a discutere solo e soltanto di provvedimenti emergenziali che non fanno i conti con i nodi reali del sistema Italia: Salva Italia (2011), Cresci Italia (2012), entrambi del governo Monti; decreto del Fare (2013, governo Letta) e lo Sblocca Italia (2015, governo Renzi). L’emergenza occupa ogni spazio di ragionamento e – come è evidente – non risolve alcun problema.

Se si guarda alla storia urbana recente, è evidente la mancanza di un progetto di città. Ripercorriamo alcuni passaggi salienti. La crisi istituzionale aperta dall’inchiesta su “Tangentopoli” aveva le sue radici nella  cultura delle grandiopere nata negli anni Ottanta e nella conseguente nuova articolazione di aggregazioni d’impresa in consorzi che si candidavano a gestire la nascente fase della “modernizzazione” italiana e nella cultura della deroga e nella costruzione. In tutte le città coinvolte dallo scandalo mani pulite emerge l’esistenza di una trama di potere che utilizza in modo disinvolto una spesa pubblica ancora gigantesca, imprese pubbliche e private riunite in potenti consorterie, grandi opere spesso inutili che non disegnano il futuro ma sono il puro esercizio per il mantenimento del potere imprenditoriale e politico.

La prima fase della vita delle nuove amministrazioni romane nate sulle ceneri di tangentopoli (1993-1998) è stata l’unica in cui si è continuato a perseguire un parziale progetto pubblico per la città. Viene infatti delineato il progetto di costruzione di una rete di metropolitane, ferrovie e trasporto pubblico integrate al fine di superare il divario che separa Roma dalle altre capitali del mondo. Ma sul versante urbanistico il vuoto di idee è manifesto: l’unico obiettivo concreto perseguito in quegli anni è la facilitazione di tanti progetti di trasformazione avulsi da qualsiasi disegno unitario, da un’idea complessiva. Questa fase contraddittoria dura poco e negli anni successivi anche la parziale idea di modernizzazione del sistema della mobilità viene colpevolmente abbandonata e si torna a quella cultura dei grandi eventi che era stata alla base del fenomeno di Tangentopoli. 

Dal 1998 Roma concentra ogni energia progettuale e risorsa pubblica nella costruzione del grande Giubileo del 2000. Si afferma ancora oggi a giustificazione di quella scelta che l’evento si svolse con grande efficienza e senza alcuno scandalo, ma non si coglie in questo modo che si rinunciò a ogni prospettiva unitaria per rifugiarsi in un efficientismo che – seppure lodevole – non affrontava i nodi della crisi urbana. Si attenua in quegli anni la tensione progettuale verso un modello di città diversa da quello che aveva funzionato per tutto il secondo dopoguerra e che mostrava proprio in quegli anni le sue evidenti contraddizioni.

Negli anni Novanta erano infatti già evidenti i segnali di crisi della finanza locale e anche i settori economici tradizionali come la pubblica amministrazione e l’edilizia iniziavano a conoscere i primi segnali di un mutamento epocale. Inoltre, in quel decennio Roma iniziava a conoscere il fenomeno dell’immigrazione dai paesi poveri e l’amministrazione locale assisteva senza prendere alcuna iniziativa a un ribaltamento di prospettiva epocale nella vita della città. Le ultime baracche in cui viveva la popolazione più povera erano state infatti demolite intorno agli anni Ottanta con un grande sforzo progettuale ed economico: nel breve volgere di un decennio si ricominciava a vederle spuntare in ogni luogo, ma se nei decenni precedenti si era manifestata una forte tensione civile verso la costruzione di una città inclusiva, negli anni Novanta il fenomeno fu colpevolmente ignorato.

Nel passaggio al nuovo millennio, dunque, Roma implode su se stessa perché non sa più declinare un progetto pubblico e si accontenta di costruire grandi eventi. L’amministrazione comunale di concerto con il governo presieduto da Romano Prodi lancia la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2004. A capo della struttura tecnica che deve elaborare il progetto da presentare al Comitato olimpico internazionale viene nominato Roberto Morassut che da lì a poco avrebbe diretto l’urbanistica romana con Walter Veltroni eletto nel 2001. Questa amministrazione porta in approvazione il più scellerato piano urbanistico che Roma abbia mai conosciuto: si prevedono nuovi insediamenti per oltre 500mila nuovi abitanti di fronte a una città che non cresce più dal 1991 e nel contempo si allentano tutte le regole del governo pubblico del territorio. 

Chiunque possiede un terreno, dovunque sia ubicato, riesce a ottenere la trasformazione urbanistica perché ciò che più conta agli occhi di questa nuova sinistra è la facilitazione agli investimenti. Si sceglie dunque di sfruttare l’effervescenza del segmento del mondo delle costruzioni causato proprio dalla assoluta mancanza di regole. Nasce il “modello Roma” che non si basa su un’idea di città che possa risolvere i nodi della crisi economica ma mette al primo posto soltanto gli indici di crescita economici dovuti al mercato immobiliare. Proprio nell’anno in cui viene approvato in via definitiva il nuovo piano regolatore della città (2008) inizia la crisi economica mondiale generata dal settore immobiliare statunitense. Il motore propulsivo su cui Roma faceva facile affidamento, e cioè la vitalità del segmento immobiliare, si sgonfiava inesorabilmente lasciando la città senza prospettiva. 

La foto emblematica del fallimento dell’urbanistica della bolla immobiliare sta negli scheletri delle torri del ministero delle Finanze dell’EUR che proprio sull’onda della valorizzazione immobiliare iniziarono a essere demolite nella seconda metà degli anni 2000 per consentire la realizzazione di un quartiere residenziale di lusso: sono dieci anni esatti che quegli scheletri fatiscenti deturpano il panorama di uno dei quartieri più belli della Roma moderna. In quegli anni, inoltre, pur essendo evidenti i segnali della crisi della finanza pubblica si continuò a utilizzare quella leva in modo irresponsabile consentendo l’avvio di nuovi cattedrali nel deserto avulse da qualsiasi disegno: l’ente EUR inizia la costruzione del nuovo centro congressi firmato da Massimiliano Fuksas.

Nelle aree dell’università di Tor Vergata inizia invece la costruzione di un grande stadio per il nuoto che – si disse – sarebbe stato pronto per l’inaugurazione degli imminenti campionati mondiali di nuoto del 2009. Il primo dei due progetti ha contribuito al disastro economico dell’ente EUR recentemente colmato con un generoso finanziamento Inail (istituto pubblico). Il secondo ha finora sperperato 400mila euro e per completarlo ne serviranno altri 600mila.

Ma il peggio deve ancora venire. Nella tornata elettorale del 2008 il centrosinistra ancora inconsapevole della dimensione della crisi della città candida nuovamente Francesco Rutelli e una città sempre più ripiegata su se stessa preferisce affidarsi a Gianni Alemanno, storico esponente della destra estrema romana. La sua azione amministrativa porta all’esasperazione il sistema delle deroghe nel mondo delle costruzioni e degli appalti pubblici: una serie di arresti di uomini di fiducia, di inchieste della magistratura, di scandali e di malversazioni scuote a più riprese la compagine capitolina la cui azione principale sarà ricordata per le fameliche assunzioni clientelari praticate nonostante i chiari segnali della crisi economica comunale. 

L’azione della giunta Alemanno avviene senza alcuna opposizione. Anzi, se anche in questo caso si dovesse sintetizzare con un’immagine il senso di quegli anni lo troveremmo nella famosa foto che ritrae la cena in cui insieme al sindaco e a quel Salvatore Buzzi ancora sconosciuto alla città che controllava decine di cooperative che beneficiavano di disinvolti finanziamenti pubblici, vengono ritratti il presidente della lega delle cooperative Giuliano Poletti (oggi ministro del governo Renzi) e il capogruppo di opposizione del Pd Umberto Marroni. Una gigantesca tavolata bipartisan in una città che affondava nel degrado.

Nel dicembre 2014 ci penserà la Procura della Repubblica guidata da Giuseppe Pignatone a rendere di dominio pubblico il verminaio che si era istallato all’interno del Campidoglio. L’inchiesta “Terre di Mezzo” svela infatti che gli appalti pubblici venivano affidati senza gare di evidenza pubblica sempre alle stesse imprese amiche; che la dirigenza comunale era ormai succube delle decisioni della sfera politica; che le funzioni pubbliche erano state via via privatizzate.

Nonostante fosse già nota l’entità del debito romano, si era continuato a governare la città con la stessa irresponsabile cultura dell’uso spregiudicato della leva della spesa pubblica. E si è continuato a utilizzare anche nella breve quanto inutile parentesi di Ignazio Marino la leva degli eventi straordinari: Roma viene nuovamente candidata alle Olimpiadi del 2020 (cancellate dal governo Monti) e a quelle del 2024.

Torniamo così al nodo principale della crisi della capitale, e cioè la mancanza di un’idea di città. È a questa mancanza infatti che dobbiamo ascrivere i fatti emersi con lo scandalo Mafia capitale. Dagli anni Novanta si è assistito a un sistematico abbandono delle prerogative pubbliche a tutto vantaggio di quelle private descritte dalla retorica dominante come le uniche in grado di poter risollevare la città. Conseguentemente si è rinunciato ad analizzare i nodi irrisolti della struttura urbana continuando a espanderla contro ogni logica. Questa gigantesca espansione, qui è la radice del fallimento economico, non poteva essere più alimentata dalla spesa pubblica facile e tutte le nuove periferie sono oggi in uno stato preoccupante di abbandono perché sono assenti i servizi pubblici. 

C’è poi il fallimento sociale rintracciabile in una dolorosa contraddizione: grazie alla deregulation urbanistica ci sono in città circa 150mila alloggi nuovi invenduti mentre circa 50mila persone vivono in baracche o in situazioni precarie di occupazione. È il fallimento delle politiche liberiste: la domanda dei ceti poveri non incontra più “il mercato” e la città capitale affonda nel degrado. È dunque soltanto con un lungimirante progetto pubblico che si può pensare al riscatto della capitale. 

Un progetto che metta al primo posto la crisi delle periferie abbandonate a se stesse; la condizione dei giovani che non hanno altra offerta se non quella della movida; la costruzione di un turismo consapevole che non porti – come succede ora – solo degrado alla città e ricchezza a pochi; l’idea di una città accogliente delle varie culture ormai radicate da due generazioni in città. Una città insomma che guarda con rigore ai suoi mali suscitando quella reazione etica in grado di invertire il corso degli eventi e uscire dall’incombente fallimento a cui l’hanno condannata le miopi idee del ventennio che abbiamo alle spalle. Senza questa idea pubblica non ci sarà soluzione né per Roma né per l’intero paese. Le capitali sono infatti lo specchio delle nazioni e il fallimento di Roma è il nodo più grande da sciogliere se l’Italia vuole continuare a guardare al futuro.

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