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Politica Casal de Pazzi / Via Tiburtina

L'ex penicillina aspetta lo sgombero: viaggio nel buco nero che ha risucchiato la dignità di chi lo vive

Intervista a due operatori dell'associazione A Buon Diritto che hanno offerto assistenza legale ai migranti ospitati all'interno

La direzione del racconto è quella di una lenta discesa nei gironi dell’Inferno, sempre più giù, verso il cuore della Terra, scivolando verso il basso tra insormontabili grumi burocratici e documenti negati, difficili parole straniere e passi falsi, con tutto il peso della fuga dalla propria terra e delle frontiere violente e mortali che ci si è lasciati alle spalle. E poi sgomberi senza alternative e ancora altri sgomberi, sempre senza alternative. Per capire l’ex fabbrica della penicillina, imponente struttura industriale abbandonata dagli anni ’90 sulla via Tiburtina, all’altezza di San Basilio, dove negli ultimi anni hanno trovato rifugio centinaia di richiedenti asilo, Romatoday ha intervistato Francesco Portoghese e Marina De Stradis, due operatori dell’associazione A Buon Diritto, che per alcuni mesi hanno fornito uno sportello di assistenza legale agli abitanti dell’insediamento. A Buon Diritto, insieme alle altre associazioni che hanno operato lì dentro (Alterego-Fabbrica dei diritti, Astra 19 a.p.s, Medici per i diritti umani, Medici senza Frontiere, Women’s International League for Peace and Freedom/Italia, il fotografo Marco Passaro e il dottor Andrea Turchi) ha lanciato l’allarme in vista di un possibile, imminente, sgombero. 

Quando avete iniziato a operare nell’ex fabbrica della penicillina?

L’intervento risale all’aprile del 2018 e arriva come un segmento successivo alle attività effettuate dalle associazioni in altri contesti simili. Questa ex fabbrica abbandonata ha funzionato infatti da contenitore per gli sgomberi della zona. Da via di Vannina a via Costi. Un fattore che l’ha anche resa una situazione estremamente problematica: dopo numerosi sgomberi senza soluzione le persone hanno visto peggiorare progressivamente le proprie condizioni di vita, non solo in relazione alle caratteristiche dell’ambiente in cui si sono ritrovate a vivere ma anche al proprio stato psicofisico. Quella che si è aggregata lì dentro è una popolazione molto vulnerabile, che proviene da altre zone di Roma o altre parti d’Italia. È scivoloso anche definirla occupazione perché non ha nulla della rivendicazione politica di un diritto come quello portato avanti dai movimenti. L’ex penicillina è più semplicemente un punto di appoggio per persone disperate. 

Da quanto tempo è, di fatto, un insediamento informale?

Considerato che è abbandonata dagli anni ’90, l’ex fabbrica è abitata da parecchi anni. Ci hanno vissuto dei rom e alcuni gruppi di immigrati prevalentemente slavi e romeni. Non sono mancati gli italiani con problemi economici e di tossicodipendenza. Negli ultimi due anni ha iniziato a configurarsi come un punto d’approdo per richiedenti asilo fuoriusciti dal circuito dell’accoglienza o per diniegati, prevalentemente africani. Il numero di persone si è impennato dopo lo sgombero di via di Vannina. In alcuni momenti lì dentro ci hanno vissuto anche 500 persone. L’ex fabbrica è l’estremo rifugio per chi era già ai margini della società, per chi non aveva proprio altre alternative o non voleva andare a Termini. Per queste persone è stato come discendere i gironi dell’Inferno. Lo abbiamo visto anche dai colloqui effettuati per il supporto legale. I primi mesi si presentavano casi sui quali, dal punto di vista giuridico, era ancora possibile lavorare per ottenere una regolarizzazione. Man mano passavano le settimane ci siamo ritrovati a fronteggiare solo casi nemmeno troppo complessi, semplicemente disperati. Dopo i primi annunci di sgombero, avvenuti ad agosto, chi ha potuto se ne è andato. Anche perché tutti gli occupanti che sono stati portati in Questura dopo lo sgombero di via Costi sono usciti con una comunicazione di avvio delle indagini per un procedimento penale per occupazione abusiva di immobile e questo ha suscitato allarme tra i presenti.

Chi vive dentro l’ex fabbrica della penicillina?

Come detto, oltre alla popolazione iniziale, ci sono molte persone fuoriuscite dal circuito dell’accoglienza, alcuni anche in seguito a revoche un po’ sospette. Ricorrenti contro le commissioni territoriali. Qualche decreto di espulsione, ma davvero pochi. Non mancano le donne. Abbiamo avuto l’impressione che moltissime di loro siano vittime di tratta, un fenomeno molto difficile da far emergere. Queste donne hanno timore a rivelarsi e gli operatori non possono forzare questo processo perché siamo consapevoli che al termine dell’intervento noi ce ne andiamo mentre loro restano. Anche i colloqui per la consulenza legale avvengono sempre con i mariti. In generale, possiamo dire che quella che si è rivolta a noi è un popolazione scossa, completamente bloccata, priva degli strumenti fondamentali per uscire da lì, perfino dell’euro e cinquanta per prendere i mezzi pubblici o di un foglietto per appuntarsi qualcosa. Un incontro dopo l’altro abbiamo visto le persone perdere lucidità e fiducia perché non hanno rapporti con la società da tanto tempo, non sono consapevoli dei loro diritti, non sanno a chi rivolgersi, anche per i servizi di base di cui potrebbero usufruire. Qualcuno non cerca nemmeno più di andarsene da lì. È un circolo vizioso: più continui a stare lì più la tua testa ne subisce le conseguenze. E anche il fisico, perché in qual posto sono ammassati medicinali scaduti, rifiuti chimici, materiali da risulta con amianto. Arrivati a questo punto la regolarizzazione non serve più a niente. La libertà non ha senso senza uguaglianza sociale. Per questo ce la siamo presa con la narrazione è stata portata avanti su quel posto: si è raccontato il degrado dimenticando completamente il lato umano. 

Al di là dei precedenti sgomberi, secondo voi quali sono le cause che hanno portato le persone a vivere lì?

La prima causa è certamente il fallimento dei percorsi di accoglienza. Non solo per i diniegati. Anche molte delle persone titolari di protezione escono dal sistema dell’accoglienza senza strumenti di autonomia: non conoscono la lingua italiana, non sono capaci di trovare un lavoro o non conoscono semplici iter amministrativi, come il rinnovo del permesso di soggiorno. Abbiamo potuto certificare, inoltre, molte revoche strumentali che hanno messo molte persone per strada da un giorno all’altro. La seconda motivazione è l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. La questura di Roma, a differenza di quelle delle altre città, chiede la residenza e non il domicilio. Ma se il permesso di soggiorno è già scaduto non puoi fare l’iscrizione anagrafica e senza questa non puoi rinnovare il permesso di soggiorno. Molte persone sono finite in un vero e proprio limbo scaturito dal palleggiamento degli uffici. Un buon numero di loro avrebbe potuto trovare un lavoro e incamminarsi su un percorso di autonomia. 

Dalla via Tiburtina l’ex fabbrica della penicillina si presenta come un mostro di cemento che incute timore. Tutti i romani lo possono vedere dall’esterno. Poche persone però hanno varcato la soglia del ‘confine’ che divide questo spazio dal resto della città. Voi si, come lo descrivereste? 

È un buco nero che risucchia la dignità dell’essere umano. Le persone quando entrano lì dentro iniziano un processo di deperimento psicofisico che le porta alla più totale alienazione. La vita quotidiana ti pone una tale quantità di problemi pratici, anche nel provvedere ai bisogni basilari, che anche solo recarsi in Comune o in Questura diventa davvero difficile. Nemmeno i campi profughi che abbiamo visto fuori dall’Italia sono paragonabili a questo posto. Prima di entrare lì dentro, in altre situazione simili, avevo sempre parlato con gente che almeno una volta al giorno è sicura di mangiare. Lì invece le persone sono estremamente magre, sopravvivono con il minimo indispensabile. Se dobbiamo descrivere un’immagine relativa alla prima volta che siamo entrati è quella di una sorta di ‘natural burella’ dei gironi infernali della Divina Commedia. È stato scioccante, da cosa calpesti per terra alle reazioni delle persone.

Possiamo dire che l’ex fabbrica della penicillina sia una vergogna per questa città e per questo Paese?

È una vergogna per tutte le politiche messe in campo in materia di immigrazione. È situata a Roma e senza dubbio ci sono anche responsabilità dirette anche da parte dell’ente locale, che avrebbe potuto far fronte a questa marginalità offrendo soluzioni alternative. Ma rappresenta soprattutto l’emblema del fallimento delle politiche di inclusione verso i migranti da parte dell’Italia e dell’Europa. 

A Buon Diritto, insieme a tutte le altre associazioni che in questi mesi hanno lavorato nella fabbrica, ha chiesto alle istituzioni di sospendere lo sgombero. Perché?

Premettiamo un punto: noi non vogliamo che la situazione rimanga così com’è. Non è giusto per chi ci abita e nemmeno per i residenti dei quartieri limitrofi. Ma uno sgombero sarà inutile o peggio ancora dannoso perché quelle trecento persone rimaste all’interno andranno a ingrossare altri stabili o più banalmente le ritroveremo a Termini. La stessa situazione che si è venuta a creare lì è figlia di altri sgomberi. Serve un’evacuazione valutando la condizione di ognuno degli abitanti. Le istituzioni si devono rendere conto che si è venuta a creare una situazione nuova. Fino ad oggi, nelle audizioni di fronte alle commissioni esaminatrici per le richieste di asilo, hanno pesato non solo le condizioni del Paese di provenienza ma anche i traumi del viaggio, le torture subite nel corso della permanenza in Libia. Ora sentiamo il bisogno di un nuovo inquadramento per la valutazione della vulnerabilità che possiamo elaborare come operatori sociali: quella da marginalizzazione negli insediamenti informali.  

Ad agosto il IV municipio ha organizzato una sorta di ‘autocensimento’ dei presenti, proprio per individuare le cosiddette ‘fragilità’ in vista dello sgombero. È stato utile? 

La categoria della fragilità creata dal comune di Roma è un istituto non teorizzato. In sostanza viene rilevata con la compilazione degli stessi moduli per l’accesso all’assistenza socio-alloggiativa temporanea. Decine di pagine dove ti vengono richieste autocertificazioni come quella relativa alla propria condizione patrimoniale o familiare. Niente che chi abita nell’ex fabbrica della penicillina possa fornire. Di rimando la categoria della fragilità risulta completamente escludente, perché chi non può dimostrare questa condizione è tagliato fuori. 

In vista dello sgombero vi siete rivolti alle istituzioni a vari livelli. Qualcuno vi ha risposto?

Gli unici che ci hanno incontrato sono gli assistenti sociali del IV municipio che però non hanno abbastanza personale per poter far fronte a questa situazione. Comune e Prefettura di Roma non ci hanno mai risposto. Ora i fari sono puntati sull’ex penicillina ma non si può non rilevare che per un annetto o due ha fatto comodo perché lì sparivano tutte le persone sgomberate da altri stabili. 

Da quello che avete ascoltato, queste persone hanno ancora delle aspettative, dei desideri, dalla propria vita?

Non hai il lusso del desiderio se non sai cosa mangiare. Dopo che vivi per così tanto tempo in questa situazione, inoltre, diventa sempre più difficile credere di poter tornare ad abitare in una casa, ad avere un lavoro, una famiglia. Tante persone ci raccontano come vivevano in Africa, l’orrore della Libia. Ma tutti ci dicono che in un posto così non avevano mai vissuto. Per noi, avere davanti persone che credono che sia impossibile ricominciare, è stato molto difficile da mandare giù. 

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