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Giovedì, 25 Aprile 2024

Fabio Grilli

Giornalista

L'emergenza cinghiali verrà risolta dalla peste suina e sarà una sconfitta per tutti

In quinta elementare ho partecipato ad una gita a Castelporziano, all’interno della riserva del presidente della Repubblica. Ricordo due cose di quell’esperienza. L’entusiasmo di aver per la prima volta visto un branco di daini. Ed il dispiacere per non essere riuscito a scorgere, dal pullmino che ci trasportava, un solitario cinghiale che la maestra aveva provato a segnalarci. Oggi invece, la diffusione di animali è tale che, quando li si incontra nel loro contesto naturale, si resta quasi indifferenti. Si è rotto un incantesimo. 

La diffusione dei cinghiali

Questi ungulati ormai fanno parte del corredo urbano. La loro presenza è pervasiva e problematica. Non da oggi. Le prime segnalazioni, a Roma, risalgono ai tempi dell’amministrazione di Ignazio Marino. Ma è stato durante il quinquennio pentastellato che gli avvistamenti sono aumentati. Sono diventati “un caso” nazionale, un fenomeno che ha finito per contrapporre rappresentanti istituzionali in uno stucchevole ed infinito scaricabarile. Da una parte la regione di Nicola Zingaretti, pronta a ricordare che una città sporca attira gli ungulati. Dall’altra il comune di Virginia Raggi, interessato a sottolineare che i piani di contenimento sono di competenza regionale.

Uno stucchevole scaricabarile

Nel braccio di ferro interistituzionale, i cinghiali hanno continuato a riprodursi in maniera esponenziale. Anche perché si tratta di una razza alloctona, introdotta in Italia proprio perché più grande e prolifica rispetto a quella nostrana, che per capirsi a Roma sopravvive (quasi) esclusivamente nella riserva del presidente. E dire che invece le istituzioni (la regione governata da Zingaretti ed il Comune e la città metropolitana amministrate da Raggi) avevano anche firmato un protocollo, nel 2019, che fissava i rispettivi compiti. Ampiamente disattesi.

Le oasi per ungulati

Il comune, che avrebbe dovuto “porre in atto tutte le misure possibili per evitare la presenza di rifiuti” si leggeva nel protocollo d’intesa, aveva anche il compito di tenere pulite le aree verdi “nelle quali l’eventuale eccesiva crescita della vegetazione può fornire un nascondiglio” veniva ricordato nell’accordo. C’è da dire che, all’amministrazione cittadina, è stato deputato anche il ruolo di “promuovere e sostenere iniziative volte ad  individuare metodi alternativi agli abbattimenti selettivi”. Un compito che però si è tradotto nella reiterata richiesta di trasportare gli ungulati catturati in “oasi per ungulati”. Ma a parte un’area messa a disposizione dalla lega anticaccia, queste oasi non sono mai state individuate. E la loro continua evocazione è sembrata più che altro un modo per ammansire gli animalisti preoccupati per il destino dei suidi. Anche perché, i cinghiali catturati, in questi anni sono stati pochissimi.

Le catture senza gabbie

Chi avrebbe dovuto provvedere all’attuazione dei piani di contenimento, vale a dire gli enti preposti alla gestione delle riserve naturali, ha provato a fare il proprio lavoro. Ma non è stata messa in condizione di farlo. Le gabbie presenti a Roma sono rarissime. Sono state sistemate nella riserva di Decima Malafede ed in quella della Marcigliana. Gli animali catturati, lungi dal finire nelle oasi, erano destinati alla macellazione o alla liberazione all’interno delle oasi venatorie. Mentre dal fronte di Coldiretti cresceva la richiesta di autorizzare i produttori agricoli, iscritti in appositi albi, a risolvere il problema con le doppiette, a chi avrebbe dovuto impedire questo epilogo non sono stati dati gli strumenti per attuare i piani di contenimento. E così RomaNatura, il principale ente preposto alla gestione delle aree protette, è stata lasciata con pochi guardiaparco e con ancor meno gabbie. 

L'emergenza Psa e gli abbattimenti selettivi

Le poche catture fatte, con gabbie anche sabotate, non hanno consentito di mettere in campo un efficiente piano di contenimento. Il risultato è che i cinghiali, così prolifici quelli importati dall’est Europa, si sono riprodotti. E riprodotti. Hanno saturato gli habitat naturali e si sono spinti in città, dov’era facile trovare il cibo scartato dagli esseri umani. Ora, come prima di noi è avvenuto in Liguria e in Emilia Romagna, i cinghiali del Lazio sono incappati nella peste suina africana. Per ora sono pochi e circoscritti i casi. Ma il rischio è che possano aumentare esponenzialmente, arrivando anche a contaminare i maiali. L’uomo, che a questo virus è immune, ha deciso di sfruttarlo per cogliere due piccioni con una fava. Come? Puntando su quegli “abbattimenti selettivi” che finora erano stati, a torto o ragione, considerati un tabù. Le gabbie, ormai, rappresentano uno strumento neppure preso in considerazione dalle recenti ordinanze. Restano i “selecontrollori”, vale a dire i cacciatori iscritti in appositi albi. Ora, visto che la situazione è emergenziale e c’è un commissario chiamato a gestirla, vi si può ricorrere. Come e quando, sarà la cabina di regia a doverlo stabilire. Si poteva evitare? Forse sì, credendo un po’ di più nel sistema delle catture. Ma in pochi hanno davvero lavorato per riuscirvi.
 

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