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Campi rom: "Anche Raggi ha fallito, ma il prossimo sindaco può chiuderli. Ecco come"

Sei fasi per sedici azioni. E due pilastri: basta approccio etnico e partecipazione. L'Associazione 21 Luglio ha presentato il suo piano per il superamento dei campi rom: "Uno strumento per il prossimo sindaco"

Sei fasi per sedici azioni da attuare in 4 anni. E due pilastri: l’abbandono dell’approccio etnico e il passaggio a una programmazione territoriale per ogni insediamento da superare secondo un modello il più partecipativo possibile. Per l’Associazione 21 Luglio chiudere i campi rom “si può e si deve fare”. Il documento è una vera e propria Agenda politica 2021 per la città di Roma che mette nelle mani del prossimo sindaco, “qualunque sia lo schieramento che vincerà le elezioni, informazioni, dati e strumenti per superare definitivamente nella capitale la stagione dei campi rom”, ha detto Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio.

Il report è stato presentato questa mattina presso la sala stampa della Camera dei Deputati, insieme al deputato di + Europa/Radicali, Riccardo Magi e di Francesca Danese, portavoce del Forum del terzo settore del Lazio. In sala anche diversi esponenti della politica romana: dalla presidente del I municipio, Sabrina Alfonsi al capogruppo della Lega in Campidoglio, Maurizio Politi, passando per il consigliere regionale di Demos, Paolo Ciani. Presente anche Walter Tocci, presidente di Roma Ricerca Roma. 

“È dal ‘94 con Rutelli che ogni primo cittadino ha annunciato il suo piano rom senza tenere conto degli errori dei predecessori. Questo studio parte dall’analisi delle 5 pietre sulle quali si sono inciampati tutti gli amministratori”. Dall’approccio ‘top down’ “rigido e non negoziabile” senza alcuna partecipazione degli abitanti dei campi e delle realtà del terzo settore, associative e cittadine che intessono relazioni con i residenti degli insediamenti alla “meritocrazia come criterio di intervento” che “riproduce modelli discriminatori” passando per “l’impianto etnico di stampo rieducativo” che porta a considerare gli abitanti dei campi come dei “disabili sociali”. Infine i “processi di scrematura” legati per esempio a “condizioni documentali o meramente meritocratici” che, sottolinea l’Associazione 21 Luglio nel report, “producono sfiducia tra i beneficiari” e “l’assenza di valutazioni di impatto e di trasparenza” in relazione alle azioni messe in campo.

“Questa visione del rom come ‘disabile sociale’ bisognoso di interventi rieducativi su base etnica ha prodotto un sistema di interventi inefficiente ed estremamente costoso. Basti pensare che negli ultimi 4 anni, sono stati impegnati circa 12,7 milioni di euro per la fuoriuscita dei rom dai rispettivi insediamenti e ben l'85% è stato speso solo per il personale coinvolto, ovvero circa 11 milioni di euro”. Anche il piano Raggi, l’ultimo dei tanti piani messi in campo dalle varie amministrazioni, per Stasolla ha fallito: “È sfociato quasi esclusivamente in sgomberi forzati, anch'essi dal forte impatto sulle casse del Comune, come avvenuto negli ultimi due insediamenti chiusi: quello del Camping River nel 2018 e quello del Foro Italico, nel 2020. Tale fallimento è stato accompagnato da un atteggiamento di sfiducia delle famiglie rom nei confronti delle istituzioni e dalle forti critiche sollevate da numerose associazioni”. 

L’intervento proposto dall’Associazione 21 Luglio si ispira invece a due modelli consolidati di progettazione partecipata: quello della metodologia Romact, programma di sviluppo voluto dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione Europea dal 2013, e le pratiche previste dal Community organizing. Un modello per uscire da condizioni croniche di emergenzialità che, per l’Associazione 21 Luglio, da un lato deve mettere al centro la comunità locale che vive nei campi e nei quartieri dove essi insistono e privilegiare l’uso di strumenti ordinari, abolendo, per esempio, l’ufficio speciale rom del Comune di Roma. Altro esempio è l’uscita dai campi che 112 famiglie hanno realizzato autonomamente, al di fuori di qualsiasi piani rom, con regolare assegnazione di casa popolare. 

Ecco quindi le sei fasi che in circa 4 anni dovrebbero portare Roma fuori dalla stagione dei campi rom. Fase uno: la comunità locale, con la mappatura degli stakeholder e l’istituzione di un Gruppo di azione comunitario (Gac). Fase due: l’attività del Gac, incaricato di redigere un Piano di azione locale (Pal). Fase tre: definizione e approvazione del Pal. Fase quattro: finanziare e realizzare con la nomina da parte del sindaco di una task force comunale. “Soprattutto in questa fase”, si legge nel piano, “è indispensabile il coinvolgimento proattivo dei beneficiari per poter garantire la sostenibilità dell’intervento”.

Fase cinque: la campagna comunicativa necessaria a un “riposizionamento retorico che abbandoni definitivamente la sottolineatura etnica e abbracci riflessioni sul vantaggio collettivo che si potrà avere dal superamento dei campi”. Fase sei: monitoraggio e sostenibilità. “L’alternativa a questa agenda secondo noi non esiste”, il commento di Stasolla. “Se il prossimo cittadino continuerà sul solco dei suoi predecessori ci vedremo collettivamente condannati a riveder scorrere le immagini di un film dall’epilogo scontato”.

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