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Più soldi, date non rispettate e nuovi strumenti: ecco perché il piano rom di Raggi è un fallimento

A testimonianza del flop un nuovo bando di gara per cercare alloggi alternativi a Roma e nelle altre province del Lazio

"La cosa fondamentale è che le linee guida per il superamento dei campi rom prevedono l'utilizzo di fondi europei. L'Italia ha avuto a disposizione dei fondi che non ha utilizzato continuando a spendere tra i 24 e i 30 milioni di euro annui per tenere in vita i campi. Noi andiamo a prendere le risorse europee e andiamo a fare quello che da anni Roma chiedeva, il superamento dei campi. Capite che siamo visibilmente soddisfatti". Sono parole pronunciate dalla sindaca M5s Virginia Raggi il 31 maggio 2017, in occasione della presentazione del Piano rom finalizzato al superamento delle baraccopoli e al parallelo reinserimento dei nuclei familiari nel tessuto sociale. Solo fondi europei, prometteva con orgoglio la prima cittadina. A tre anni da quell'annuncio vediamo però che non è andata esattamente così. 

Il piano rom della giunta Raggi: i dettagli

I fondi per i rom non sono europei

Le risorse europee di cui sopra evidentemente non bastano più. E il Comune è costretto a versare di tasca propria quello che manca. A testimoniarlo il bando di gara per la ricerca di alloggi temporanei destinati all'accoglienza delle famiglie rom in uscita dai campi, pubblicato appena prima di Natale (qui i dettagli). L'importo a base di gara è di 1.785.726 euro. Di questi 900mila sono fondi europei, gli altri 885mila, quindi quasi l'altra metà, provengono dalla casse del Comune. A confermarlo è lo stesso Campidoglio interpellato in merito. Basterebbe questo, a onor del vero, a far parlare di "fallimento" dell'obiettivo, se non altro economico, che la sindaca si era data nel 2017. 

Perché il piano rom ha fallito

In realtà il bando in questione rivela un altro aspetto che porta a parlare di obiettivi mancati sul fronte delle politiche destinate ai residenti delle baraccopoli. Vediamo il perché. Le misure proposte tre anni fa nel Piano rom per trovare una sistemazione abitativa alle famiglie non hanno funzionato come da aspettative (buono affitto, rimpatri, autorecupero di immobili, utilizzo di strutture di proprietà comunale per l'emergenza abitativa). Lo dimostra il fatto che solo un campo è stato smantellato e che Barbuta e Monachina che sulla carta dovevano chiudere entro il 31 dicembre 2020 (vedi i bandi di gara fatti per il superamento dei due singoli insediamenti) sono ancora aperti. E lo dimostra ancora il fatto che pochissime famiglie di quelle fuoriuscite hanno usufruito delle suddette misure. Ecco i numeri forniti a riguardo dall'associazione 21 Luglio, da tempo impegnata in difesa dei diritti della comunità rom. 

I numeri del fallimento 

Al Camping River, unico insediamento dicevamo che è stato chiuso in questi anni, su un totale di 400 abitanti nel 2017, solo sei famiglie hanno utilizzato il buono affitto da spendere sul mercato immobiliare privato, di questi solo quattro contratti sono oggi ancora attivi. Altre 14 famiglie sono state rimpatriate ma oggi tutti i progetti avviati con i Paesi d'origine si sono interrotti e i nuclei sono rientrati a Roma. A la Barbuta, maxi campo ancora aperto, su 586 persone nel 2017, nessuna ha utilizzato gli strumenti messi a disposizione dal piano. Idem a Castel Romano. Mentre a La Monachina quattro famiglie sono riuscite a sfruttare il buono affitto.

"Alcuni campi si sono alleggeriti - spiega a RomaToday il presidente della 21 luglio Carlo Stasolla - ma perché le famiglie rom o sono finite per strada dopo azioni di sgombero, o hanno reperito in totale autonomia soluzioni abitative alternative, sia nel mercato privato che nell'edilizia residenziale pubblica (le case popolari, ndr). L'Amministrazione Comunale vuole smentire questi numeri? Benissimo, lo faccia. Così finalmente recupererà quell’assenza di trasparenza che, sulla questione, ha dall’inizio contraddistinto il suo operato". 

Insomma, è chiara la ragione per la quale il Campidoglio corre ora ai ripari e opta per un nuovo strumento. "Per i campi rom de La barbuta e della Monachina la chiusura è prevista entro la fine del mandato - ha dichiarato proprio ieri la sindaca Raggi - andiamo avanti in maniera inesorabile". Già, ma per velocizzare urgono misure diverse dalle precedenti. E allora ecco spuntare il suddetto appalto per la caccia a organismi operanti nel sociale. Servono enti terzi che mettano a disposizione alloggi garantendo allo stesso tempo, per un periodo di 24 mesi, un servizio di "accoglienza diffusa" centrata, si legge nel bando, "sul sostegno all'inclusione attiva e all'accompagnamento educativo e di integrazione sociale".

Nel servizio da affidare il Comune richiede anche progetti di "educazione domestica" per le famiglie. E percorsi, non specificati nei contenuti, che siano dedicati a mamme e papà e mirati a "sviluppare un'adeguata funzione genitoriale". Un'iniziativa che ha sollevato pesanti polemiche sia dalle associazioni umanitarie che dalle opposizioni di centrodestra e dai Radicali. In tanti hanno parlato di "fallimento" e "spreco di risorse pubbliche". 

La replica del Comune

Da parte sua il Comune smentisce che si tratti di un strada percorsa in extremis figlia di un flop generale delle politiche precedentemente fissate. "Non si tratta di una misura emergenziale né concepita nelle ultime settimane, come erroneamente rappresentato da alcuni media" spiega la delegata all'Inclusione di Roma Capitale Monica Rossi in una nota stampa. "La misura era già presente sin dal principio nel piano rom e nasce come uno dei molteplici strumenti per favorire l'inclusione dei residenti nei campi''. 

Se era presente fin dal principio però dovremmo trovarla così espressa all'interno della delibera 105/2017. Nel testo del provvedimento che contiene il Piano rom (consultabile a questo link) sono sette i punti alla voce "abitare", che stabiliscono le linee guida da adottare per la ricerca degli alloggi alternativi. Tolto il primo relativo all'individuazione con un censimento dei nuclei familiari interessati, troviamo interventi di autorecupero "del patrimonio immobiliare comunale degradato", il "reperimento attraverso il mercato immobiliare privato di abitazioni per i beneficiari in possesso delle condizioni minime economiche a sostenere le relative spese", "l'adozione di misure temporanee di sostegno economico per l'accesso al mercato immobiliare", il cosiddetto buono affitto, "l'individuazione di immobili nella disponibilità di Roma capitale da destinare all'emergenza abitativa", e ancora "i progetto di rientro assistito volontario per le famiglie". 

L'ultimo punto parla di "spostamenti solo se volontari in altre province e Comuni attraverso specifici accordi con le municipalità interessate - secondo gli indirizzi dell'Assemblea capitolina - e prevedendo come per le altre modalità previste dei percorsi di accompagnamento all'abitare e all'inclusione sociale". Se il bando in questione (che non fa riferimento solo a province fuori Roma ma anche a tutti e 15 i municipi della Capitale) rientrasse in questo punto, mancherebbero però gli accordi con i territori e gli indirizzi dell'Aula consiliare. 

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