Editoria 4.0, il momento di fare manutenzione delle parole
Il corso Editoria 4.0 è una casetta degli attrezzi, poco teorica e molto pratica e operativa, per la comunicazione, l'editoria, il marketing e il giornalismo contemporaneo
Themillenial.it ha pubblicato un approfondimento sul nuovo Corso di Alta Formazione di UnitelmaSapienza, Unione Stampa Periodica Italiana (USPI), Officine Millennial e 22HBG, dedicato ai giovani editori, investitori e operatori della comunicazione, spiegato ai millennial e agli Zeta dal Direttore dell'Alta Scuola di Comunicazione e Media digitali di UnitelmaSapienza, Mario Morcellini e dal Segretario Generale di Uspi, Francesco Saverio Vetere.
IL BANDO ONLINE
Il corso di Alta Formazione - intervista a Mario Morcellini
Si tratta di una serie di lezioni essenziali che hanno lo scopo di guidare e aggiornare i nuovi operatori dei media digitali, editori, publisher, giornalisti, pubblicitari ma anche i nuovi inserzionisti che da troppo tempo galleggiano nella scarsa chiarezza dei modelli imprenditoriali di comunicazione portati dalla rivoluzione della Rete.
Morcellini, qual è il ruolo dello scienziato umanista ai tempi dell’Intelligenza Artificiale?
«Ribadire e rilanciare il ruolo sociale dell’editoria, della comunicazione, di un’adeguata manutenzione delle parole. Se l’analisi dei dati è il nuovo petrolio, sta ai valori umanistici scaldare la freddezza dei numeri, offrirne un’interpretazione che davvero sia in grado di aumentare il benessere. L’elemento chiave è proprio la parola, che rivive oggi nelle storie, nella scrittura e nella voce che trovano continuamente nuove strade, nuovi contenitori tecnologici».
Quindi i sociologi apocalittici di fine secolo hanno sbagliato la previsione…
«Si diceva che l’immagine fosse tutto, che ci avrebbe fregato con la sua potenza evocativa. Niente di più falso».
Lei lo aveva capito?
«Tutti abbiamo un grande maestro, Umberto Eco. Ed è stato lui a introdurre per primo l’esigenza di discipline dedicate alla teoria e alla tecnica dei nuovi media, per studiare in che modo i contenuti, i linguaggi e i testi potevano adattarsi alla tecnologia».
Eco fu il primo a occuparsi di digitalizzare la conoscenza. Era davvero incredibile allora, nei primi anni Novanta, pensare a intere biblioteche improvvisamente disponibili su quei supporti digitali, i cd rom, oggi superati ma allora rivoluzionari. Però il semiologo espresse anche delle perplessità, per esempio sui social network fu durissimo e sull’idea di libro digitale aveva dubbi.
Arrivò ad affermare che interi manoscritti vergati su carta realizzata con vecchi stracci avevano resistito all’usura del tempo e che, al contrario la vita dei dati digitali avrebbe potuto essere drammaticamente più breve.
Umberto Eco secondo lei era deluso da questa evoluzione tecnologica?
«Sapeva che le tecnologie cangianti non potevano essere ignorate, che dovevano essere affiancate, che se ne doveva sfruttare la potenzialità senza che questo volesse dire affossare definitivamente altri supporti. E in effetti oggi, dopo una crisi epocale, il libro come oggetto ha ritrovato un suo equilibrio e così sta accadendo per i dischi in vinile. La forza del Corso di Editoria 4.0 è proprio questa, stimolare il lavoro su discipline che integrino e aiutino la diffusione dell’informazione e della scienza, che sappiano connettere le diversità dei linguaggi».
Una certa idolatria tecnologica però è oggettivamente in crisi. Gli scandali per la violazione della privacy, le ingerenze politiche, cresce l’accusa ai Big Tech di creare algoritmi manipolatori e di evadere il fisco…
«I dibattiti sulla tecnologia, sulla sua accettazione e il suo utilizzo ci sono e devono esserci. Oggi per esempio il faro è puntato sulla didattica a distanza e sul lavoro in modalità remota, la cui utilità è incontestabile».
Insomma, è meglio vigilare sui possibili aspetti negativi e trovare soluzioni per una nuova socialità, piuttosto che rinunciare alla rivoluzione in atto?
«Bisogna essere consci di quante finestre si sono aperte per i laboratori dell’informazione e della comunicazione. Intere collezioni di libri, di fonti, di dati aperti, di pluralismo informativo».
Tutto questo in che modo impatta o impatterà sul tema delle identità locali, quanto rischiamo di perdere abbracciando comunità globali?
«Questa informazione liquida si giova di uno scambio che supera il locale, ma come e quanto impatterà lo dovremo scoprire nel tempo. Credo che l’impegno dovrebbe essere quello di creare un ambiente meno agonistico tra realtà locali di diverse dimensioni».
Si riferisce all’incapacità, molto italiana, di non fare sistema anche nella comunicazione?
«Penso che la globalizzazione abbia portato e porti anche frustrazione e che esista un ruolo chiave dell’informazione locale. Che oggi è facilitata dalla tecnologia nel creare davvero delle community capaci di far conoscere il piccolo, il locale, il territorio, o realtà che fino a oggi erano senza voce. E che ora possono averla, sviluppando le capacità per esempio dell’Editoria 4.0. C’è un’informazione di contiguità da esplorare come servizio al cittadino».
Eppure esiste anche una pulsione a chiudersi, spesso cavalcata dalla politica.
«Anche se ci sono aree di resistenza e disinformazione, lo scambio di conoscenza e cultura è sempre esistito e il bilancio finale è sempre positivo».
Pensa che lo choc generato dalla Pandemia giocherà una parte nel cambiare le forme di comunicazione, a livello locale e internazionale?
«Immagino una nuova normalità alla quale le persone si abitueranno, avendo però appreso una maggiore sensibilità al dolore, alla spiritualità alla cura reciproca. Certe scene, come la Messa in solitaria del Papa, le canzoni dai balconi, la ricerca spasmodica di relazioni, musiche e parole che accarezzino l’anima, anche se oggi sono finite hanno lasciato qualcosa che sta coprendo le cicatrici. Credo si possa dire che queste situazioni oltre al dramma abbiano svelato anche la forza di cui siamo capaci. E questa si trasmetterà alle altre generazioni».
Intervista a Francesco Saverio Vetere
Dal 1999 è segretario generale dell’Uspi (Unione Stampa periodica italiana), che raccoglie oltre 3500 piccole e medie testate, tradizionali e online, e le supporta in ogni aspetto del loro lavoro. Nella convinzione che l’editoria di prossimità sia un patrimonio informativo da preservare per un Paese in cui è la provincia a essere il vero centro. Per conservare questo patrimonio bisogna trasformalo. Il giornalismo è uno specchio: per funzionare deve riflettere l’immagine del mondo che cambia.
Cosa può salvarci da un presente tanto traumatico?
La provincia può essere la nostra salvezza. Quando sei in crisi ti liberi da tutto ciò che è posticcio, ti rivolgi a ciò che sei davvero: e quasi ognuno di noi, scava scava, è fatto di provincia. Anche io sono tornato in Calabria, al mio mare, qui dove c’è il senso profondo di quello che ero, di quello che sono, e pure di quello che sarò.
In Italia conta di più la metropoli o la provincia?
Nazioni come Francia e Inghilterra hanno una base centralistica. Ci sono Londra e Parigi, e poi c’è il resto, che gli ruota attorno. L’Italia, come la Grecia o la Germania, è geneticamente policentrica. La provincia è il senso profondo del nostro Paese. Ci sono storie e culture diversissime: mi piace pensare che siano anche complementari.
Qual è il compito della cultura rispetto alle trasformazioni socioeconomiche che stiamo vivendo?
Per Hegel la filosofia è come la civetta di Minerva, che inizia il suo volo al crepuscolo, quando il sole è già tramontato. Voglio dire che noi assistiamo a un’evoluzione rispetto alla quale non possiamo fare un bel nulla. Non possiamo illuderci di adeguare la Storia alla nostra visione del mondo. Dobbiamo essere noi ad adeguarci alla Storia, al di là di ogni giudizio di valore personale.
E allora la Storia come sta cambiando l’informazione?
Dobbiamo capire se la forma giornale è quella adatta al futuro. Con la testata registrata presso il tribunale, il direttore responsabile, il colophon e altre amenità burocratiche. Più in generale, dobbiamo capire quanto le notizie arriveranno ancora al pubblico grazie a un mediatore informativo. Una volta c’era IL giornale, che catalizzava l’attenzione. Oggi l’informazione è così complessa e articolata da rendere evidentemente marginale la forma giornale. Anche la tv e la radio continueranno a essere profondamente modificate: probabilmente internet sarà il contenitore di ogni media informativo.
Come ha influito la pandemia su questo processo?
Nell’ultimo anno e mezzo siamo certamente migliorati per quanto riguarda l’utilizzo della tecnologia. Direi che abbiamo più stima di internet. Abbiamo capito che è un mezzo che ci può consentire di vivere meglio. Non so se quest’intervista, nel 2019, sarebbe stata fatta su Meet. Abbiamo imparato cose nuove, soprattutto che si può lavorare in modo diverso, modellare la routine sulle nostre inclinazioni, costruire una vita lontana dall’ufficio. Questo cambiamento secondo me è irreversibile. Perché ha intercettato il desiderio umano di essere liberi. Oppure, più prosaicamente, di essere meno stressati.
Cioè… Di tornare in provincia?
Diciamo…di affrancarsi dalla frenesia della metropoli. Mi auguro che ci sia una deurbanizzazione. Ma non so dire se il ritorno nelle provincie e nelle città natali a cui abbiamo assistito ultimamente sia una congiuntura passeggera o una condizione stabile.
L’editoria di provincia ha paradossalmente più chance di sopravvivere rispetto a quella nazionale?
Il giornale di prossimità viaggia sul principio della stampa utile. Se racconta notizie false viene subito scoperto. Le fake news hanno vita dura in provincia. Perché c’è un rapporto diretto e molto forte col suo pubblico, non si scherza. La gente in teoria può andare a controllare sul posto, cioè dietro casa. Il segreto dell’editoria locale è sempre stato quello di raccontare cose vicine ai lettori. Nel nostro mondo globalizzato e complesso, il cui carico informativo è tendenzialmente ingovernabile dal cittadino comune, il giornale di prossimità analizza una porzione di realtà limitata, ancora verificabile dal lettore medio. Anche e soprattutto nell’ambito dell’editoria online i giornali che crescono di più in assoluto sono quelli provinciali.
Qualche numero?
Solo in Grecia, già nel 2000, c’erano circa 5 mila testate locali. In Italia, il doppio. La maggior parte di queste testate si sono spostate sul web. La rete di informazione territoriale, soprattutto a livello provinciale, è il vero patrimonio informativo del nostro paese. Assicura standard di qualità tenendo conto degli scarsi mezzi a disposizione. Penso ad esempi come il gruppo Citynews o a Fanpage, entrambi iscritti a Uspi, che crescono grazie a una grande competenza nell’utilizzo dei motori di ricerca e una presenza efficace sui social.
Che cosa li differenzia da altre realtà meno fortunate?
Non sono giornali cartacei digitalizzati, sono giornali pensati appositamente per internet. Perché porgere le informazioni sul web è molto diverso dal porgerle sulla carta. Bisogna scrivere in una maniera diversa rispetto al giornalismo tradizionale. Il giornalista oggi deve sapere cose profondamente diverse rispetto a vent’anni fa.
E Uspi come supporta questo processo di trasformazione?
La nostra idea è di favorire l’ulteriore sviluppo dell’editoria territoriale online e soprattutto di farne crescere i fatturati. Dato che, almeno a oggi, l’unico provento viene dalla pubblicità, la presenza delle agenzie pubblicitarie è fortissima. Per ora assistiamo a una notevole crescita di lettori, purtroppo non proporzionale alla crescita dei fatturati. Vorremmo creare un sistema economico in grado di assumere giovani e di investire in tecnologia.
Come?
Facciamo lobby con le istituzioni per riequilibrare il rapporto con le concessionarie pubblicitari. Favoriamo la formazione, insieme al nostro prezioso partner tecnologico 22HBG, così da migliorare gli standard e da dare gli strumenti tecnici adatti ai tempi che cambiano. In generale, i giornalisti devono affinare le loro competenze in termini di SEO, cimentarsi con la composizione di contenuti video e audio, adeguare la propria scrittura ai nuovi media.
Il sistema editoriale italiano è al passo con i tempi?
Per niente: va riformato completamente perché ha strutture e leggi vecchie. Alcuni vogliono vivere ancora nel Novecento. Non a caso, l’ordine dei giornalisti nasce su impulso dei gesuiti, come forma di controllo. Nel corso dei decenni si è creato un sistema di collusione tra ordine dei giornalisti, sindacato e grandi editori, il cui obiettivo comune è quello di autotutelarsi. Di recente, i player globali hanno portato una mentalità nuova che però purtroppo si scontra con la collusione di cui parlavo. Certi condizionamenti, impensabili negli altri paesi occidentali, soffocano il sistema. Qui si gioca la nostra battaglia.