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Cultura

La Chiesa di San Giovanni Decollato e la sua confraternita

Storia del capolavoro del manierismo che fu la chiesa dei condannati a morte

Nel rione Ripa, alle spalle di via Petroselli, si trova in una via ad essa dedicata la Chiesa di San Giovanni Decollato, uno dei luoghi più lugubri dell’intera Roma.

La struttura, oggi quasi inaccessibile, è aperta solo in rarissime occasioni e nella ricorrenza della nascita di San Giovanni, il 24 giugno. Al suo interno, tra le opere manieriste del Vasari e di grandi artisti da lui scelti come Jacopino del Conte e Francesco Salviati, sono ancora sepolti i corpi dei condannati a morte nei secoli di dura legge papale.

Costruito nel sedicesimo secolo nell’area precedentemente occupata dall’antica chiesa di Santa Maria della Fovea (o della Fossa), l’edificio venne da subito assegnato all’Arciconfraternita di San Giovanni decollato. Il compito di questa associazione religiosa fiorentina, nata nel 1488 col nome di Compagnia della Misericordia, era quello di accompagnare ed assistere i condannati a morte nelle loro ultime ore, cercando di ottenerne un pentimento ed una confessione.

Il gruppo che si riuniva presso San Giovanni Decollato era particolarmente specializzato in questi compiti e diventò sempre più influente presso il papato. Inoltre il loro rapporto con i pontefici fiorentini attribuì ancor più potere e responsabilità alla confraternita, ponendo le basi per alcune delle idee della controriforma. Sempre per i suoi rapporti con la comunità fiorentina riuscì inoltre ad annoverare tra i suoi ranghi artisti del calibro di Michelangelo o di Antonio da Sangallo.

Nel giorno che precedeva un’esecuzione, i confratelli, celati dai loro mantelli neri, uscivano al calar della sera per recarsi nelle carceri di Tor di Nona e di Corte Savella, annunciando l’imminente spettacolo col suono di una campanella. Iniziava così la veglia notturna in cui i “confortatori” cercavano di portare a termine la loro missione principale. La confessione significava chiaramente anche la salvezza dell’anima, quindi ogni mezzo era lecito per raggiungerla. Minacce d’inferno, oggetti roventi puntati contro la pelle e metodi più blandi non escludevano talvolta anche il ricorso alla violenza fisica.

All’alba, scritto il testamento ed espletate le ultime formalità, iniziava una lunga processione per le vie della città. Al seguito del condannato, con le mani legate dietro la schiena, vi era una folla di curiosi e popolani ma anche di parenti e di adepti di altre confraternite. Alcuni confratelli di San Giovanni Decollato accompagnavano il corteo illuminandolo con le candele e cantando delle litanie mentre altri lo precedevano mostrando costantemente al condannato delle tavolette raffiguranti immagini sacre.

Terminata l’esecuzione, il boia riconsegnava il cadavere alla confraternita che si occupava anche della sepoltura. Se la testa non era già stata tagliata erano loro a questo punto a rimuoverla e a conservarla fino al 24 giugno, data in cui veniva data alle fiamme in occasione della festa di San Giovanni Battista.

Solo a chi, in punto di morte, aveva accettato il sacramento della confessione e si era pentito era concessa una sepoltura “cristiana”, nelle fosse comuni della Chiesa di San Giovanni Decollato. La frase in latino “Signore, quando vieni a giudicare, non condannarci” sui chiusini di marmo delle sette botole poste a copertura ne mantiene ancora viva la memoria.

Diversamente, gli immeritevoli dovevano essere portati al di fuori della città, nel terreno adiacente al Muro Torto, considerato un luogo profano. Vi erano poi dei casi estremi, di uomini ritenuti assolutamente indegni di giacere insieme agli altri, che erano quindi lasciati a decomporsi sulle rive del Tevere fuori dalla Porta del Popolo.

Ai condannati a morte restava comunque una sottile speranza, riposta ogni anno nel giorno del 29 agosto. Durante l’anniversario della decapitazione di San Giovanni i confratelli si riunivano per scegliere un singolo carcerato meritevole di riottenere la libertà. Questa votazione, espressa in delle urne contenenti fave nere o fave bianche rappresentava unica possibilità di salvezza dalla pena certa.

In seguito alla riconversione ottocentesca della confraternita in un semplice istituto di beneficienza il materiale documentario dell’istituzione venne versato al neo formato Archivio di Stato di Roma. Parecchi cimeli di inestimabile valore confluirono invece nella collezione della “camera storica” dell’arciconfraternita, adesso purtroppo non più visitabile perché danneggiata.

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