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Cultura

La Basilica di San Pietro in Vincoli: uno scrigno di tesori nel Rione Monti

Il racconto di un luogo fuori dal comune, in cui la storia incontra l'arte e la religione abbraccia il mito

Nella meravigliosa cornice del Rione Monti, a pochi passi dal Colosseo, sorge un edificio veramente speciale, dove storia, arte e spiritualità si intrecciano indissolubilmente, regalando suggestioni visive e l’emozione di uno straordinario viaggio nel tempo.

Stiamo parlando della Basilica di San Pietro in Vincoli, luogo di culto cattolico che, già nel nome, riassume tutta la potenza evocativa delle vicende all’origine della sua costruzione.

Una chiesa dalla storia affascinante e dai tanti aneddoti a cominciare dalla salita che tuttora conduce a questa splendida basilica. Quelle che oggi portano il nome, rispettivamente, di Salita dei Borgia e Via di San Francesco di Paola erano, nella Roma Antica, un vicolo a dir poco malfamato, chiamato non a caso vicus sceleratus, ossia “vicolo scellerato”. All’origine di questa fama assai poco lusinghiera, vi è la cupa vicenda di Tullia, figlia del re di Roma Servio Tullio. Secondo il racconto di Tito Livio la donna, per favorire l’ascesa al trono dell’amante e futuro marito Lucio Tarquinio (poi Tarquinio il Superbo), fece assassinare sia i rispettivi consorti che il padre, calpestando poi il corpo di quest’ultimo con un carro, proprio sul vicolo incriminato.

Ad alimentare ulteriormente la pessima fama di questa stradina si sono aggiunti, in epoca rinascimentale, i foschi intrighi e delitti che hanno contraddistinto la storia della potente famiglia dei Borgia, cui forse apparteneva il palazzo che sovrasta la scalinata (detta, appunto, “dei Borgia”).

Fondamentale per la storia della Basilica è l'origine del suo nome.  Il termine “vincoli” deriva dal latino vincula, ossia “catene”, in riferimento proprio alle catene con cui San Pietro venne legato durante la prigionia nella città di Gerusalemme.

Tesoro di importanza inestimabile per la cristianità, queste reliquie vennero donate dal Patriarca di Gerusalemme Giovenale a Elia Eudocia, moglie dell’imperatore romano d’Oriente Teodosio II, in occasione di un viaggio di quest’ultima in Terra Santa. L’imperatrice le inviò poi alla figlia Licinia Eudossia - moglie dell’imperatore romano d’Occidente Valentiniano III - la quale, a sua volta, le diede in dono a Papa Leone I (futuro San Leone Magno).

Secondo una suggestiva leggenda, il pontefice avrebbe avvicinato le catene ricevute dall’imperatrice a quelle utilizzate per imprigionare San Pietro nel Carcere Mamertino, in modo da poterle confrontare; a quel punto, sarebbe accaduto qualcosa di incredibile: esse si sarebbero fuse tra loro, dando vita ad un’unica catena.

Nel 442 d.C., Licinia Eudossia decise di far costruire una chiesa che custodisse la preziosa reliquia (tuttora conservata all’interno della basilica, sotto l’altare maggiore) e che ricordasse nel tempo l’evento miracoloso. Il fatto che le due catene provenissero una da Oriente e l’altra da Occidente rese l’episodio ancor più significativo, in quanto il miracolo divenne simbolo del legame tra i due imperi e di una volontà divina di riunificazione. Proprio dal nome della sua fondatrice, la chiesa è anche nota come basilica Eudossiana.

Ma l’opera che, più di ogni altra, ha dato lustro a questa chiesa è, senza dubbio, il celeberrimo Mosè di Michelangelo. Considerata uno dei massimi capolavori della scultura rinascimentale, quest’imponente statua di marmo - alta più di due metri - venne realizzata tra il 1513 e il 1515 (e successivamente ritoccata nel 1542) come parte del complesso statuario della Tomba di Giulio II, ospitata all’interno della basilica.

Il progetto iniziale del sepolcro papale prevedeva la realizzazione di un mausoleo funerario monumentale, costituito da più di quaranta statue a tutto tondo, tra cui lo stesso Mosè. In seguito, tuttavia, il progetto venne considerevolmente ridimensionato e si ridusse a un monumento composto unicamente da sette statue, di cui solo tre ad opera di Michelangelo. Tra queste, naturalmente, è il Mosè a imporsi per perfezione e maestosità, al punto che lo stesso artista fece scrivere al proprio biografo Ascanio Condivi che “questa sola statua è bastante a far onore alla sepoltura di papa Giulio”.

Ciò che colpisce maggiormente di questa scultura colossale è l’incredibile profondità dello sguardo; uno sguardo di sdegno - rivolto agli ebrei colti nell’atto di idolatrare un vitello d’oro - definito addirittura “terribile” e più volte associato al carattere irascibile dell’artista. Le curiose “corna” che spuntano dal capo di Mosè rappresentano la luce divina, ma sembra siano frutto di un errore di traduzione del racconto biblico nel quale si narra che Mosè, scendendo dal Monte Sinai, avesse due raggi sulla fronte. In effetti, la parola ebraica karan, ossia “raggi”, nelle varie traduzioni realizzate nel corso del tempo potrebbe essere stata trasformata in keren, il cui significato è proprio quello di “corna”.

Assai degno di nota è anche un altro episodio che accompagna la storia della scultura: nel 1542, per motivi religiosi, l’artista ruotò la testa del Mosè, attuando una contemporanea torsione di tutto il corpo. Un’operazione di inimmaginabile difficoltà tecnica, possibile solo ad un genio indiscusso come Michelangelo.

Una leggera striatura in corrispondenza del ginocchio del Mosè ha stimolato nel tempo la fantasia popolare, dando vita ad una ormai ben nota leggenda. Secondo questo racconto, Michelangelo, stupito egli stesso dall’assoluta perfezione stilistica dell’opera, cui sembrava mancare soltanto la parola, avrebbe esclamato “Perché non parli?”, colpendo violentemente il ginocchio della statua con un martello, in un gesto di esasperazione. In realtà, la venatura del marmo è assolutamente naturale e non ha nulla a che vedere con una lesione provocata dall’esterno.

Oltre ad ospitare un capolavoro assoluto dell’arte mondiale ed importanti reliquie legate al primo papa della Chiesa Cattolica, la Basilica di San Pietro in Vincoli offre al visitatore la possibilità di ammirare opere di grandi pittori quali il Guercino e il Domenichino, apparendo così al pubblico come un gioiello di rara bellezza, incastonato nel centro di Roma.

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