Roma misteriosa: la Cripta dei Cappuccini a Santa Maria Immacolata
Quasi alla fine della rutilante via Veneto, presso piazza Barberini, sorge una chiesa la cui dedica originaria era a Santa Maria della Concezione, ma che a Roma è più conosciuta come “la chiesa dei Cappuccini”, i frati il cui saio ha un cappuccio marrone e bianco. Molti fra romani e turisti conoscono questa chiesa solo in virtù di ciò che di più strano in Roma si può visitare: il vecchio cimitero al di sotto dell'edificio, uno stretto corridoio che conduce ad una serie di cappelle le cui pareti e volta sono letteralmente coperti da decorazioni barocche. Ma per realizzare le belle figure non sono stati usati né stucco nè marmi, ma teschi, denti, femori, e qualsiasi altro osso proveniente da oltre 4.000 scheletri, una volta frati Cappuccini. Il tocco finale è il motto del cimitero, che rammenta impietosamente «noi eravamo quello che voi siete, e quello che noi siamo voi sarete».
Senza dubbio è qualcosa di imperdibile per gli amanti del brivido. Il cimitero, tuttavia, distrae i visitatori dalla vera e propria chiesa sovrastante, dove nella prima cappella a destra è esposto un magnifico dipinto di Guido Reni a cui quasi nessuno presta attenzione; raffigura l'arcangelo Michele nell'atto di schiacciare col piede la testa di Satana. Assieme a Bernini e Borromini, Guido Reni fu uno degli artisti più ricercati del XVII secolo. Nato a Bologna, era venuto a Roma per completare il suo praticantato, e in questa città si era stabilito, ed era rimasto attivo per gran parte della sua vita.
Reni viene ricordato non solo per i suoi dipinti, ma anche per il suo carattere stravagante.
Era attraente, molto ricco, vestiva sempre elegantemente, ma soffriva di manie persecutorie; in particolare, viveva nella continua paura di essere avvelenato. Credeva anche nella magia e nella stregoneria. Era particolarmente attratto dal gioco d'azzardo, e spesso passava l'intera notte a giocare a carte.
In quegli anni, due fra le famiglie più importanti e nobili di Roma erano i Barberini e i Pamphilj; il loro rango lo si evince facilmente considerando che papa Urbano VIII (Maffeo Barberini, 1568-1644) apparteneva alla prima delle due famiglie, mentre tra i suoi cardinali compariva Giovanni Battista Pamphilj. Un’aspra ruggine esisteva fra le due famiglie, nel continuo tentativo di accrescere il proprio potere temporale.
Anche il fratello del papa, Antonio Barberini, era cardinale; nei suoi anni giovanili era stato un Cappuccino. Per tale ragione, attorno al 1635 aveva commissionato un dipinto dell'arcangelo Michele per la chiesa del suo stesso Ordine, e Guido Reni, artista di grido attivo a Roma, era stato prescelto perché se ne incaricasse. Secondo una leggenda, che forse contiene un briciolo di verità, a Reni era giunta voce che il cardinale Giovanni Battista Pamphilj lo aveva diffamato, o aveva in qualche modo offeso la sua reputazione.
Così il permaloso artista decise di vendicarsi per mezzo del suo proprio talento, al tempo stesso compiacendo il committente, che apparteneva alla famiglia antagonista. Il cardinal Pamphilj aveva un volto lungo, stempiato, con la barba rada e uno strano sguardo, che l'artista giudicò perfetto come modello per ...Satana! Senza dubbio, la faccia che l'arcangelo Michele schiaccia col piede è quasi identica a quella di Giovanni Battista Pamphilj. Ciò divenne ancora più imbarazzante qualche anno dopo, quando nel 1644 lo stesso fu eletto papa Innocenzo X. Quando il quadro venne esposto nella chiesa, il cardinale ovviamente protestò per un tale oltraggio; si dice che l’artista abbia ammesso l’incredibile somiglianza, ma che si sia giustificato sostenendo che gli era apparso Satana, dunque ne conosceva bene le fattezze, e se il cardinal Pamphilj aveva la gran sfortuna di assomigliargli, il pittore non ne aveva alcuna colpa.
Ma per meglio spiegare il grande fascino della Cripta dei Cappuccini in via Veneto, proponiamo un capitolo del volume Roma vista controvento di Fulvio Abbate (Bompiani, Milano, 2015, pp. 697, € 19,00).
«Agli spagnoli, ai siciliani, ai leccesi, ai messicani, agli amanti di Halloween e dei film terrorizzanti del regista Dario Argento che magnificano le meraviglie del proprio barocco raccapricciante, i romani sono autorizzati a controbattere con lo spettacolo della cripta dei Cappuccini in via Veneto, compreso il sacello dove riposa Padre Mariano (1906-1972), il frate-professore che spiegava il Vangelo e molto altro nella televisione del servizio pubblico confessionale e concordatario al tempo monocolore e monocanale della Democrazia Cristiana, chiudendo i propri discorsi con un inamovibile e proverbiale “Pace e bene a tutti”.
La cripta è infatti cosa davvero unica, forse nascosta rispetto all’occhio del visitatore ignaro o accecato soltanto dal binomio via Veneto-Dolce vita: e dunque puttane, cocaina, attori famosi, pessimo cibo ed escrementi di ratto nei migliori locali titolati, ma comunque degna di ogni possibile attenzione.
Se le omonime catacombe palermitane – dove i morti dimorano attaccati per il collo e per le natiche con gli abiti del proprio mestiere, già viste nel film di Francesco Rosi “Cadaveri eccellenti” – vanno associate alla teatralità espressionistica per la loro ridondanza scenografica, nel caso della sede romana bisogna pensare semmai all’astrazione pura: Mondrian piuttosto che Munch. In via Veneto infatti le ossa umane sono utilizzate, come elementi geometrici, per realizzare una decorazione parietale. Ai Cappuccini di via Veneto le vertebre, i bacini, le costole, i femori, cartilagini comprese, servono a comporre l’ornato delle cripte. Qualcuno, a suo tempo, pensò a installare, uno dopo l’altro, ogni pezzetto d’ossa al muro.
Il discorso profondo che se ne deduce solo in apparenza riguarda il libro dell’Ecclesiaste, e anzi smentisce i capisaldi di quel testo: non è vero che tu, da morto, non servi più a nulla, guarda bene qui e scoprirai che non si butta niente nella versione più combinatoria del barocco.
Nell’ordine, troviamo la cripta della resurrezione, la cripta dei teschi, la cripta dei bacini con un grande baldacchino (di bacini, ovviamente) dal quale pende un fregio di vertebre e due grandi fiori laterali formato da scapole con pendagli sempre di vertebre. La cripta dei tre scheletri, dove i piccoli scheletri – amati defunti di casa Barberini – sorreggono con una mano un cranio alato. Nel sito ufficiale è possibile leggere:
«Verso la metà del Settecento, con interventi successivi fino al 1870, questo luogo di sepoltura, di preghiera e di riflessione per i cappuccini – che vi scendevano ogni sera prima di andare a riposare – è stato trasformato in un’opera d’arte, per trasmettere il messaggio che la morte ferma le porte del tempo e apre quello dell’eternità».
PRENOTAZIONI: amici@romafelix.it 3498533464