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Sabato, 20 Aprile 2024
Economia

Quando Almaviva si chiamava Atesia: "Vi racconto la nostra battaglia contro la precarietà"

Parla un ex dipendente della società che nel tempo divenne Almaviva nonché membro del Collettivo precari Atesia che tra il 2005 e il 2008 si battè per la stabilizzazione

C'è un piccolo particolare della drammatica vicenda della chiusura della sede romana di Almaviva Contact che è passato in secondo piano nella concitata cronaca sindacale delle ultime settimane. Per alcuni dei lavoratori coinvolti la storia inizia da lontano, dalla fine degli anni '90, quando l'azienda si chiamava Atesia e il controllo era in altre mani, ed è segnata da una via crucis di anni di precariato, scioperi, trattative sindacali contestate, licenziamenti e battaglie. Tra queste, la lotta del Collettivo precari Atesia, tra il 2005 e il 2008, che segnò un passaggio fondamentale verso la stabilizzazione. Per riprendere le fila di questa storia Romatoday ha intervistato Valerio Gentile, ex dipendente ex Atesia, tra i membri del collettivo.

Partiamo dalla fine. Al termine di una lunga trattativa sindacale la sede romana ha chiuso aprendo la porta a 1.666 licenziamenti. Da ex lavoratore del Collettivo Precari Atesia come inquadra quanto accaduto?

Era un epilogo scontato. Dopo l'accesa stagione di lotte portata avanti dal Collettivo, si è assistito a un lento degrado in termini di qualità della vita sul posto di lavoro che ha prodotto l'esito che ora è sotto gli occhi di tutti. Nel corso degli ultimi anni sono passati vari accordi come quelli per aumentare la produttività e il controllo a distanza dell'attività del dipendente da parte dell'azienda. In questo scenario, purtroppo, i lavoratori non sono stati capaci di interpretare quanto stava accadendo. Da una parte credo che questo epilogo derivi dal fatto che il Governo abbia deciso di tagliare i finanziamenti pubblici al settore. È chiaro che i lavoratori non sono Monte dei Paschi di Siena. Dall'altra che gli stessi lavoratori siano stati utilizzati come arma di ricatto nei confronti del Governo. 

La storia di quella che oggi è Almaviva parte da lontano, dalla fine degli anni '90 quando si chiamava Atesia. Una storia caratterizzata da precarietà e vertenze difficili per i lavoratori, alcuni dei quali oggi si sono ritrovati con le lettere di licenziamento tra le mani. 

Atesia inizialmente era una società controllata da Telecom, recentemente privatizzata dalla Sip. All'epoca i telefoni cellulari non erano diffusi come oggi e la posizione del 'lavoratore del call center' era nuova. Nel 2004 l'azienda viene spezzata in due parti: una è rimasta a Telecom ed è diventata Telecontact Center, l'altra è stata acquisita dal Gruppo Cos. Io sono stato assunto nel 2004. In quell'anno Atesia aveva circa 3 mila dipendenti.

Che situazione ha trovato?

Eravamo tutti inquadrati con contratti di collaborazione Co.co.co, poi diventati Co.co.pro con l'introduzione della legge Biagi. Eravamo contrattualizzati come collaboratori anche se, come riconosciuto in seguito da sentenze del Tribunale di Roma e dall'Ispettorato del lavoro, il nostro impiego era di natura subordinata. Avevamo orari da rispettare ed eravamo sottoposti al controllo dei responsabili di sala. Va precisato inoltre che eravamo pagati a cottimo e il salario variava in base al numero delle chiamate gestite da ogni operatore. Avere dei contratti 'a tempo', inoltre, faceva sì che periodicamente venisse affissa una sorta di 'lista di proscrizione' con i nominativi delle persone a cui veniva rinnovato il contratto e di quelle che invece erano fuori. Sembrava di lavorare in una giungla. È in questo contesto che nacque il Collettivo dei precari Atesia. Chiedeva una cosa molto semplice: contratti a tempo indeterminato e full time per permettere a tutti di vivere in maniera dignitosa.

Qual è stato il fatto scatenante che ha convinto i lavoratori ad autorganizzarsi in un collettivo? 

La decisione unilaterale di abbassare il cosiddetto 'compenso per contatto utile'. In altre parole, ridurre la retribuzione a cottimo. La necessità di unirsi in un collettivo per molti fu dettata da una scelta politica, per tutti dal bisogno di migliorare le proprie condizioni sul posto di lavoro. Ricordo che all'epoca i sindacati non erano presenti in azienda: eravamo precari e non esisteva una categoria che ci rappresentasse. Quindi non potevamo nemmeno eleggere rsu. Fu in quel periodo che nacque il Nidil della Cgil che rappresentava i cosiddetti lavoratori atipici. Ma se posso fare un inciso, il collettivo è sempre stato osteggiato sia dall'azienda sia dai sindacati. 

Da lì alla stabilizzazione la battaglia fu lunga.... 

Si, e nel mezzo ci furono molti scioperi, decine di 'mancati rinnovi' e diversi licenziamenti. Tra cui il mio e quello di altri quattro membri del collettivo. Arriviamo così al 2006. I precari rigettarono più volte l'accordo che Cgil, Cisl e Uil avevano raggiunto con l'azienda che prevedeva un migliaio di assunzioni con un ricorso massiccio a contratti di apprendistato e di inserimento e altrettanti licenziamenti. Il Collettivo chiedeva un'altra cosa: contratti a tempo indeterminato. Nel 2007 l'allora Governo Prodi stanziò circa 300 milioni di euro per incentivare la stabilizzazione dei lavoratori del settore che vivevano uno stato di precarietà selvaggia. I contratti a tempo subordinato vennero accordati ma i lavoratori furono costretti ad accettare una riduzione dell'orario di lavoro da 36 ore settimana a 20. Si trattava di contratti part-time il cui salario si aggirava attorno ai 500-600 euro. Il resto è storia recente. Una storia fatta di altri licenziamenti, nuovi 'aiuti' da parte dello Stato e un settore che lamenta uno stato di crisi sempre più profondo puntando il dito contro gare al ribasso e delocalizzazioni in paesi dove la manodopera costa meno. 

Quale elemento, secondo lei, nella sua esperienza nel Collettivo avrebbe potuto essere utile ai lavoratori in questi ultimi mesi difficili?

L'abitudine a incontrarsi in assemblea, a confrontarsi sui problemi e sulle strategie da mettere in pratica. Negli anni del collettivo era quasi una prassi quotidiana. Stavamo attenti a ciò che accadeva senza delegare mai alcun rappresentante sindacale. Credo sia questo che ci ha portato ad interpretare i malumori del colleghi ed a diventare incisivi nella vertenza. 

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