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Romeni d'Italia

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A cura di Miruna Cajvaneanu

Burtone e Maricica diventano personaggi teatrali, per parlare della violenza nelle periferie

La vicenda di Maricica Hahaianu, l’infermiera romena che morì dopo essere stata colpita con un pugno alla stazione Anagnina da un giovane romano, è diventata una storia teatrale.

Una storia teatrale che ha alla base un lavoro di documentazione, un colloquio con il sostituto procuratore che ha seguito il caso e soprattutto il desiderio di andare oltre i due personaggi, con lo scopo di capire come è cambiata Roma negli ultimi anni.
 
L’autore è Roberto Scarpetti, tra i vincitori del Premio Riccione per il teatro nel 2011. La prima della sua pièce, intitolata “Roma Est”, è andata in scena a novembre, all’interno dello spettacolo-maratona “Ritratto di una capitale” al Teatro Argentina, ottenendo l’attenzione di critica e pubblico. Ho incontrato Roberto Scarpetti proprio durante il suo lavoro di documentazione. Abbiamo parlato di Maricica, della lite nella metro, delle donne romene che vengono qui per lavorare e del loro modo di vivere la realtà lontana dalla loro, dalla nostra, patria.
 
Ho rivisto poi Roberto per una video intervista pochi giorni dopo che la vicenda di Maricica e di Alessio Burtone è tornata sotto le luci dei riflettori, in seguito alla scarcerazione dell’aggressore, dopo soli quattro anni dall’accaduto.
 
Propongo l’intervista in anteprima ai miei lettori del blog ospitato da Roma Today, proprio mentre si apprende dai giornali che Alessio Burtone ha appena ricevuto un’altra condanna per aver picchiato, un anno prima della morte di Maricica, nella stessa zona della città, un’altra donna straniera, questa volta una signora peruviana.
 
Roberto, come mai hai deciso di occuparti della vicenda di Maricica Hahaianu e scrivere un testo teatrale?
Il fatto mi colpì da subito. Seguii la vicenda sui giornali, lessi su di lei e su Burtone. Mi sembrava che la vicenda rappresentasse bene la violenza della città, soprattutto l’incapacità di avere rapporti con persone appartenenti a un’altra cultura, l’incapacità di risolvere un problema attraverso la comunicazione. E quando non si accetta il confronto con l’altro, scatta la violenza. Ricordo che mi colpì anche la potenza delle immagini a circuito chiuso della stazione che furono trasmesse e ritrasmesse alla tv. Da allora ho pensato che potesse essere un argomento su cui scrivere.
Poi, all’inizio di luglio 2014 sono stato invitato dal direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, a partecipare allo spettacolo collettivo “Ritratto di una capitale” e ho iniziato a pensare cosa e a come raccontare di Roma. Ho scelto abbastanza velocemente, perché mi sembra che valesse la pena raccontare questa storia.

Quanto lavoro di indagine ti ha richiesto la sceneggiatura?
Non tanto, perché il tempo a disposizione era poco. Per prima cosa, ho pensato di contattare e incontrare Burtone. Mi sono consultato con un amico avvocato, che mi ha detto che sarebbe stato possibile se anche Burtone fosse stato d’accordo. Ma dopo avrei dovuto incontrare anche il marito di Maricica. Questi due incontri avrebbero finito però col condizionarmi nella scrittura, legandomi alle loro dichiarazioni, non permettendomi di elaborare una costruzione teatrale dei personaggi. Una volta presa la decisione di non incontrare le persone coinvolte nel fatto, dovevo allora documentare il più precisamente possibile l’episodio. Così sono riuscito a parlare con il sostituto procuratore che si è occupato del caso, Antonio Calaresu. Lui mi ha fornito una minuziosa ricostruzione dei fatti, secondo le varie testimonianze, così come sono emerse durante il procedimento processuale. E’ stato un incontro molto prezioso.

Hai detto che hai pensato di andare a parlare con Burtone. Quale domanda in particolare gli avresti voluto fare?
Gli avrei chiesto se provava pentimento o se aveva dei rimorsi per quello che aveva fatto. Una domanda molto intima e non è detto che sarei arrivato a farla già a un primo incontro.

Come sono i due personaggi?
Decidendo di non incontrare le persone coinvolte, ho avuto una certa libertà autoriale. Preciso che nel testo io racconto la vicenda, ma non menziono mai i nomi, né di Burtone, né di Maricica. Non facendo nomi il corto teatrale risulta liberamente ispirato al fatto di cronaca.
La vicenda diventa così riconoscibile e allo stesso tempo simbolica: è lo scontro tra due persone che rappresentano culture che sono considerate distanti ma, in fondo, non lo sono.
Parto dai personaggi reali per raccontare una vicenda che potrebbe accadere di nuovo, prima o poi, in altre città italiane. In questo modo l’episodio diventa paradigmatico.
 
Quali dettagli, magari poco conosciuti, sono usciti fuori durante questo incontro?
Il sostituto procuratore Calaresu mi ha parlato della sua opinione sulla difesa portata avanti dagli avvocati di Burtone, incentrata sulla costruzione di una certa immagine dell’aggressore, come il ragazzo della porta accanto. L’immedesimazione ha portato l’opinione pubblica a giudicare più favorevolmente quello che Alessio Burtone ha fatto. Questo tipo di difesa puo' aver fatto presa anche sul collegio giudicante.
 
Hai detto che Burtone è un personaggio simbolico. Cosa rappresenta?
Burtone, per me, rappresenta un distacco da una radice culturale del passato. Come se in determinati quartieri di Roma, o forse a differenti livelli in tutta Roma, una certa generazione fosse cresciuta con valori non più riconducibili a quelli delle generazioni precedenti.
C’è un distacco tra nipoti e nonni. Esisteva una volta una saggezza popolare romana che si è persa, una forma di cultura che non esiste più. Tra quei valori, c’era anche l’accoglienza, o il rispetto per le donne. Magari una saggezza brusca e per certi versi aggressiva, dettata da una conoscenza del mondo che era soprattutto empirica, ma che sembra essersi dissolta nelle nuove generazioni.

E Maricica?
Non conoscendo Maricica, ho cercato di raccontarla come una donna italiana degli anni sessanta. Cioè, più precisamente, come una donna con dei valori molto simili a quelli dell’Italia degli anni ’50, ’60. Un paese ancora legato a una cultura contadina, un paese in cui i sogni, le aspirazioni, erano legati a un immaginario più concreto rispetto a quello effimero del nostro presente. Per me, anche appartenenti a una cultura straniera, i valori di Maricica non sono poi così distanti da quelli degli italiani degli anni ‘50, ’60.

In base a quello che sostieni, credi che la colpa di questo stravolgimento di valori sia attribuibile a genitori e media?
Conta tutto. Non si può fare un discorso completamente sociologico. Contano i valori di riferimento che una società riesce a proporre, come dicevo prima. Ma contano anche quelli della famiglia. Ciò non riguarda la famiglia di Burtone, ma in generale parlo di valori in questo momento effimeri, qualche volta irraggiungibili. C’è un distacco tra quello che si può realizzare e quello verso cui si dovrebbe tendere. Per questo credo che molti giovani si sentano persi, incapaci di elaborare la realtà, il proprio mondo. Incapaci di avere un confronto con l’altro. Poi è ovvio che ognuno reagisce e si comporta secondo il proprio sentire. La violenza è sempre una scelta personale.

Come hai appreso la notizia della scarcerazione?
Sorpreso, ma non più di tanto, perché lui era già agli arresti domiciliari. Non credo che sia la notizia della scarcerazione in sé - che arriva secondo termini di  legge - che debba essere dibattuta. Sono solo state applicate delle regole del sistema.
Il punto importante, secondo me, va individuato nel primo processo, in Corte di Assise. Il sostituto procuratore ha chiesto 15 o 16 anni, non ricordo bene, ma Burtone è stato condannato a 8. Quello è il problema. Dopo quella sentenza, ovviamente scattano le riduzioni di pena, i premi per buona condotta e dopo quello, in 4 anni si esce.

Come evolve, in un futuro ipotetico, il tuo personaggio?
Il personaggio che ho scritto io non cambia. Anche se ho cercato di dargli una speranza. L’ultima cosa che dice lascia intravedere una sorta di presa di coscienza del fatto che in qualche modo si sente perso. Poi finisce lì… Certo, il modo in cui chiude l’ultimo monologo lascia sperare in un cambiamento. Poi, se il personaggio reale cambi, non lo so… me lo auguro.

C’è una giustizia diversa se ad essere coinvolto nello stesso tipo di reato è uno straniero o un italiano?
È così. È triste, ma non c’è da sorprendersi. È un fatto reale, non è un caso isolato. Non è applicabile e non è stato applicato solo per Burtone. E’ un problema della giustizia italiana. La difesa di Burtone è stata incentrata sulla sua immagine da bravo ragazzo proprio perché gli avvocati sapevano che c’è una propensione verso questa tendenza.  

Come vede Roma est tra dieci, vent’anni? I due mondi si incontreranno?
Ho cercato di dare un doppio senso al titolo. Oltre a Roma est, inteso come la parte est della città, c’è anche il significato latino, ossia “Roma è”. Questa dualità di significato per me significa una speranza di cambiamento, ha una connotazione positiva.
Se questi due mondi non saranno capaci di incontrarsi allora sarà un inferno. Ma io credo che si incontreranno. Una maggiore tensione nei rapporti fa male a tutti. Si dovrà trovare per forza un modo per venirsi incontro. Su questo sono ottimista.

Burtone e Maricica diventano personaggi teatrali, per parlare della violenza nelle periferie

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