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Gigi Proietti e il Teatro, l'attore popolare tecnicamente perfetto

Nun je dà retta Roma, che un morto vuol dire davvero poco, perché le sue battute dal cavaliere nero a Todo, dalla saùna all’intervista sola, continueranno a passare di bocca in bocca, di generazione in generazione e lui resterà nella storia della città eterna, come Romolo, Cesare, Petrolini, er monnezza, Sordi, Falcao, in una parola sarà un altro grande Re

Morire e nascere il giorno dei morti  è una cosa che solo Mandrake avrebbe potuto fare. Aveva chiesto l’attenzione dei nostri occhi nel fantastico recital (o resaital) e da allora l’ha avuta, tutta. Proprio quello spettacolo, precursore in Italia di un genere nel quale oggi fin troppi si cimentano, è una delle chiavi per capire bene il successo e la meritata gloria del grande attore romano, scomparso oggi nel giorno in cui, con l’ultimo sospiro, ha fatto in tempo a spegnere le sue ottanta candeline, per poi spegnersi anch’egli. 

A metà degli anni ’70, l’Italia era in pieno fermento, politico, culturale e artistico. Era un continuo susseguirsi di lotte di classe, scioperi, voglia di ricambio generazionale, attentati, stragi. Un vento innovatore voleva spazzare via il vecchio, per far posto al nuovo. Al cinema i grandi film d’autore si sono visti affiancare da nuovi generi. Da una parte c’erano i provocanti film erotici, nei quali in nome dell’indipendenza dal bigottismo, si facevano spogliare le donne attraverso storie nelle quali era fin toppo evidente che fossero gli sceneggiatori a spogliarsi di qualsiasi velleità intellettualistica. Dall’altra c’erano i film “poliziotteschi”, forti di quel retaggio fascista della giustizia a tutti i costi. Due generi che, a ben vedere, hanno rappresentato il seme di una deriva culturale della quale la nostra Nazione sta ancora pagando le spese (ma questa è un’altra storia). 

Parallelamente, nel mondo dello spettacolo, la parola d’ordine era diventata “spettacolo sperimentale”, un prodotto in netta contrapposizione all’idea del teatro borghese. In questo scenario, nel teatro Tenda di piazza Mancini si accendono per la prima volta nel 1976 i riflettori su “A me gli occhi… please” con Luigi Proietti. L’attore aveva già una storia artistica: al cinema era stato presente in piccoli ruoli già dagli anni ’60 e all’inizio del decennio successivo ottiene il ruolo da coprotagonista al teatro Sistina in “Alleluja brava gente” al fianco di Renato Rascel. A quel tempo recitare al Teatro Sistina significava qualcosa. Voleva dire consacrazione. 

Non a caso, subito dopo partecipa a film come Brancaleone alle crociate, La mortadella entrambi di Monicelli, Meo Patacca di Marcello Ciorciolini e La Tosca di Luigi Magni.  Luigi Proietti, dunque, è già un nome ma tutto sommato è ancora un attore giovane, molto lontano dall’inarrivabile clan della commedia all’italiana.  Debutta quindi, per la prima volta anche come regista, in un recital, in cui (ri)propone una serie di testi di Petrolini e canzoni della tradizione romana di fine ‘800, quindi quanto di più vecchio potesse esserci, ma lo fa in un modo del tutto originale. 

Lo fa alternando il classico a testi scritti per l’occasione dal grande autore Emilio Lerici, adeguando il linguaggio dei testi e del corpo al contesto socio culturale dell’epoca, tanto che gli spettatori hanno l’impressione non di avere davanti a sé un attore trombone vecchio stile, ma uno di loro. Solo un’impressione, perché Proietti tutto era tranne che uno del pubblico che ce l’ha fatta, il falso mito nel quale ci fanno vivere i talent in cui chiunque può essere qualcuno. Proietti era sì un attore di “estrazione popolare” ma era soprattutto un attore tecnicamente perfetto, che sapeva usare i propri strumenti (voce e corpo) a suo piacimento. 

In “A me gli occhi… Please” l’attore romano fa un ottimo mash up, come si dice ora, di tradizione e innovazione. Spoglia il palco di scenografie borghesi, posiziona l’orchestra dietro di sé, non indossa un costume di scena che crea di per sé un distacco con il pubblico, ma veste una semplice camicia bianca che gli permette di essere tutti e nessuno. Inoltre, porta con sé una cassa, ottimo pretesto per condurre il pubblico dove vuole, senza il bisogno di una coerenza drammaturgica. Il suo modo di abbattere la quarta parete è del tutto peculiare: lui non dialoga con gli spettatori, ma recita tutto in modo frontale. Prende in giro e canzona i classici come Amleto, sbeffeggiando il celebre “essere o non essere”, parodia i relatori delle conferenze, dei quali spesso noi tutti non capiamo niente e, infine, rende elegante anche il personaggio del coatto.

Insomma Luigi Proietti porta il teatro al pubblico e non viceversa. Da quel momento entra nel cuore del pubblico, quel pubblico che gridava all’innovazione e che si era ritrovato ad applaudirlo perché la sua innovazione era stata fargli riscoprire la tradizione.
Al cinema rimangono poche magistrali interpretazioni, una delle quali, forse la più emblematica è datata lo stesso anno di “A me gli occhi… Please”: Febbre da cavallo di Steno. Fa pochi film, ma tutto sommato tanti, rispetto alla media di un attore famoso italiano contemporaneo, perché secondo i produttori “Proietti non è un volto da cinema”, ma forse è stata questa la sua enorme fortuna, perché Proietti il suo pubblico se l’è conquistato uno ad uno in più di quaranta anni di repliche mai sospese di spettacoli che via via hanno avuto bisogno di una platea sempre più grande. 

Un successo duraturo che non si è retto sull’onda di un film di successo, per poi andarsi a infrangersi contro lo scoglio della dimenticanza, ma costruito con fatica e sudore, sera dopo sera, replica dopo replica, riuscendo attraverso un’arte vecchia come il teatro a scolpire le battute nella mente degli spettatori meglio di qualsiasi altro mezzo di comunicazione. 

La televisione gli ha dato più occasioni rispetto al cinema di saldare il suo rapporto con il pubblico in alcune fiction di successo, fra tutte “Il maresciallo Rocca”, nella quale propone ancora una volta un personaggio nel quale il pubblico può immedesimarsi: non un algido e distaccato poliziotto, un supereroe dotato di intelligenza superiore, ma un simpatico carabiniere, un uomo comune alle prese con i problemi di ogni giorno da affrontare col suo solito sorriso magico. 

Negli anni cresceva la sua aurea di artista e maestro e, man mano che andavano scomparendo gli altri grandi, diventava l’ultimo, l’ultimo al quale veniva fatta una standing ovation senza essere imbeccati dai fastidiosi “scaldapubblico”. Ma lui trovava sempre un modo per essere dalla parte del pubblico, metaforicamente per scendere da quel piedistallo sul quale l’arte stessa lo aveva messo: anche quel modo buffo per dire uno “sfondone” per poi mettersi la mano imbarazzata davanti alla bocca a significare “ormai l’ho detta”; anche l’utilizzo sapiente delle parolacce che in bocca a lui parolacce non erano più, erano un modo per dare voce ai pensieri del suo pubblico, quel pubblico che oggi lo piange come l’ultimo grande interprete. E a tutti quei monologhisti, romani e non, che affollano i palchi strillando e ripetendo a pappagallo battute troppo spesso rubate da internet, protagonisti di spettacoli in cui non fanno altro che essere monotonamente loro stessi, senza manifestare nessuna tecnica, bravura o capacità artistica, bisognerebbe consigliare di rivedere il recital (o resaital) nel quale si evince fin troppo chiaramente che si può leggere anche un semplice verso e riuscire a far ridere o piangere, cosa impossibile senza tecnica, senza poesia, senza arte. Senza Proietti mancheranno tutte e tre le cose.   

Una cosa è certa, nun je dà retta Roma, che un morto vuol dire davvero poco, perché le sue battute dal cavaliere nero a Todo, dalla saùna all’intervista sola, continueranno a passare di bocca in bocca, di generazione in generazione e lui resterà nella storia della città eterna, come Romolo, Cesare, Petrolini, er monnezza, Sordi, Falcao, in una parola sarà un altro grande Re. 
 

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