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Giovedì, 25 Aprile 2024
Limitato a Porta Maggiore

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A cura di Ylenia Sina

Gli sgomberi e le (non) soluzioni alternative: quando alla politica basta pensare che "in fondo è meglio che finire per strada"

Roma si prepara a una nuova stagione di sgomberi dei palazzi abitati senza titolo da migliaia di famiglie in disagio abitativo. Non è un passaggio secondario nella definizione delle politiche capitoline perché il modo con cui le istituzioni affronteranno questa fase costruirà il modello di città che avremo di fronte nei prossimi anni. Il Comune pentastellato di Virginia Raggi e la Regione Lazio del nuovo Pd di Nicola Zingaretti ribadiscono ormai da tempo che non ci saranno più sgomberi senza alternative.

Eppure, nonostante dopo mesi di stallo la macchina si sia rimessa in moto, di alternative sul tavolo ancora non ce ne sono. A distanza di quasi due anni dall’avvio della stagione degli sgomberi, accelerata dal cosiddetto decreto sicurezza del governo Renzi, ogni soluzione all’orizzonte sembra non poter far altro che assumere un carattere emergenziale. Centinaia di famiglie, tra loro tantissimi bambini, hanno già avviato il censimento che li dovrebbe portare fuori dagli ex uffici, ex case di riposo, ex scuole, ex caserme che per anni sono stati la loro casa, senza avere la minima idea di dove finiranno.

Ma questo è ‘solo’ il problema più grosso. La repressione degli sgomberi ha un aspetto già raccontato, quello dei blindati e degli idranti di piazza Indipendenza, o dei poliziotti in tenuta antisommossa sul tetto degli ex uffici di via Quintavalle, che nell’estate del 2017 lasciarono per strada decine di famiglie. Al contrario, la sostanza delle alternative messe in campo fino ad adesso è stata considerata con molta più distrazione. ‘Sgombero soft’, la definizione usata dal Campidoglio per il trasferimento delle circa 80 persone, 24 famiglie in tutto, che vivevano nell’occupazione di via Carlo Felice 69, a San Giovanni. Una definizione efficace, fatta propria da tutti i mezzi di informazione. Lo sgombero con le alternative, in fondo, è un semplice trasloco. Una parte di queste persone sono finite in alloggi ‘non popolari’ messi a disposizione dalla Regione Lazio a prezzi calmierati; una parte in appartamenti della proprietà; i single in un’ala di un centro comunale per senza tetto, ma “appositamente allestita per loro”.

Con un piccolo particolare: l’alternativa dura due anni, proprio come il Servizio di assistenza sociale e alloggiativa temporanea con cui il Campidoglio vuole superare i vecchi Centri di assistenza alloggiativa, sempre temporanei. I residence dello scandalo, degli oltre duemila euro al mese per appartamenti invivibili ricavati da ex uffici, dove famiglie in attesa di una casa popolare sono rimaste per dieci, quindici, in alcuni casi anche vent’anni trasformando l’assistenza alloggiativa in un affare milionario per i proprietari di questi immobili. Sembra assurdo ma a Roma, dove i residence sono stati uno scandalo, si continuano a spendere soldi per soluzioni temporanee su larga scala con l’ambizione ancora tutta da verificare che si riuscirà a spendere di meno (i prezzi sono comunque quelli di mercato). Al di là del dato economico, poi, c’è il disastro sociale: oltre mille e cinquecento famiglie hanno vissuto per anni esistenze immerse in un’eterna, precaria, attesa con conseguenze psicologiche e sociali in alcuni casi difficilmente rimediabili. Il primo indizio della Roma che verrà è proprio questo.

L’unica alternativa alla strada per i senza casa che vivono nelle occupazioni, ad oggi, sembra dover passare per il guado di una vita precaria. Del resto, sembra di sentire questo commento in sottofondo: è sempre meglio della strada. Il diritto alla casa per i più poveri della città può quindi tranquillamente fondarsi su un compromesso, sull’accontentarsi ad un abitare di serie B. Intanto il percorso tracciato dalla delibera regionale sull'emergenza abitativa che stanziava quasi 200 milioni di euro di finanziamenti per reperire alloggi popolari, un terzo dei quali dovevano servire a dare una casa agli occupanti, si è interrotto. Il Campidoglio, in nome della legalità, è deciso a rispettare la graduatoria e non vuole aprire bandi speciali, seppur previsti per legge. La Regione, sul tema degli sgomberi, si è adeguata, percorrendo la strada delle alternative condivise con il Campidoglio.

Un’occasione sprecata, perché come dimostrano i primi censimenti, praticamente tutte le famiglie che vivono nelle occupazioni avrebbero diritto a una casa popolare: il 90 per cento di loro è in lista da anni. Tra le oltre 12 mila famiglie in attesa, circa 5 mila abitano nelle occupazioni. Sarebbe stato un modo per sgonfiare questa bolla, considerando che l’applicazione della delibera avrebbe portato anche alloggi per sfoltire il resto della graduatoria e per i residence, altro grande cruccio dell’amministrazione. Nel frattempo, Roma ha assegnato circa 300 abitazioni nel 2016, salendo ad una quota che oscilla tra le 400 e le 500 case nel 2017 e nel 2018. Intanto, solo per citare un dato, una media di 8 famiglie al giorno (in riferimento al 2017) è stata costretta a uscire dalla propria abitazione per uno sfratto esecutivo. Il numero totale ammonta a 2927.

Perché allora continuare a puntare su soluzioni della durata di due anni come i Sassat 2? L’idea alla base è che nel frattempo a queste famiglie venga finalmente assegnata una casa popolare oppure che la loro condizione economica migliori tanto da potersi permettere un alloggio a prezzi di mercato. Non è impossibile, certo, ma entrambe le prospettive risultano più simili a una scommessa che a politiche sociali e abitative in grado di dare dare risposte programmate per durare oltre una consiliatura. 

Il nodo è ideologico: nessuna concessione a chi si pone al di fuori della legalità, anche se spinti dalla negazione di un diritto fondamentale riconosciuto anche dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La conseguenza logica è una criminalizzazione strisciante che porta le politiche pubbliche relative alle occupazioni a oscillare tra l’affrontare la questione come problema di ordine pubblico e i limiti posti dal rispetto dei diritti umani che ogni amministrazione o governo dovrebbe rispettare. La categoria delle ‘fragilità’, in fondo, è nata così: dal momento che l’assenza di politiche abitative in grado di affrontare la questione cittadina ha generato la repressione di piazza Indipendenza e la tendopoli di piazza Santi Apostoli, era necessario arrivare a fornire soluzioni di carattere sociale ed emergenziale a tutte quelle persone che, seppur al di fuori della legalità, non possono proprio essere lasciate per strada. Donne e bambini, e poi famiglie intere, dal momento che la divisione dei nuclei è sempre stata un forte elemento di conflitto.

Con la fragilità il terreno del diritto alla casa lascia posto alla sfera dell’assistenza sociale. In questo contesto il censimento delle famiglie presenti può essere una garanzia per quanti vivono nelle occupazioni ma può trasformarsi anche in un’azione di cernita da parte delle istituzioni tra coloro che sono fragili e coloro che non lo sono. Per i più poveri, la Roma del futuro rischia di partire dall’ennesimo atto di esclusione.

Un ultimo elemento: le istituzioni, a tutti i livelli, stanno lavorando per superare le occupazioni senza considerarne la lezione. Non solo nella costruzione di comunità meticce, così lontane da quell’insensato ‘prima gli italiani’ che riecheggia sempre più spesso in questo Paese. Queste famiglie hanno dimostrato che la città può essere riutilizzata senza nuovo cemento, elaborato progetti architettonici per immaginare ambienti di qualità, al di fuori dei meccanismi della rendita, modellato gli spazi partendo da relazioni sociali inclusive, creato consapevolezza su cosa significhi abitare una città. Non è solo una questione di proprietà privata. In cima alla lista degli sgomberi c’è l’ex scuola di via Cardinal Capranica. Un immobile pubblico. Il modello di città che erediteremo da queste amministrazioni partirà proprio da lì. 

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