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Limitato a Porta Maggiore

Limitato a Porta Maggiore

A cura di Ylenia Sina

Quel messaggio di Maslax che Roma ancora non vuole ascoltare

I volontari di Baobab Experience hanno lanciato un appello a Ferrovie dello Stato perché faccia la sua parte e dopo anni di sgomberi contribuisca ad arrivare alla creazione di un hub di prima accoglienza nell’area della stazione Tiburtina destinato a tutti quei migranti che restano fuori dai circuiti assistenziali. Può sembrare una richiesta poco centrata, un po’ fuori obiettivo, e invece mette le mani su un nodo scoperto che riguarda l'intera città.

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Per capirlo basta mettere in relazione due eventi che nelle cronache cittadine sono stati raccontati separatamente e che invece, basta osservarli un po’ più da lontano, sono parte dello stesso disegno. Il primo avviene nella fredda mattina del 13 novembre quando le forze dell’ordine sgomberano su richiesta di Ferrovie dello stato la tendopoli allestita per accogliere i migranti in una delle tante aree inutilizzate di proprietà di Fs che sorgono lungo il cosiddetto ‘lato est’ della stazione Tiburtina. Era stato ribattezzato piazzale Maslax in onore del giovane 19enne che dopo essere passato per il Baobab di via Cupa e per le strade di Roma, tentato fortuna in Belgio dove vive una sorella e dopo essere stato rispedito in Italia in un centro di accoglienza straordinaria a Pomezia, ha deciso di togliersi la vita. In quella fredda mattina del 13 novembre, in un piazzale che portava su di sè questa difficile storia, mentre la polizia identifica 130 persone (24 di queste poi raggiunte da un decreto di espulsione, una quarantina sono rimaste per strada) ruspe e braccia meccaniche distruggono ogni tenda e ogni riparo di fortuna che si trovano davanti.

Il secondo fatto avviene meno di un mese dopo, il 5 dicembre, in una delle futuristiche stanze sospese all’interno della stazione Tiburtina progettata dall’archistar Paolo Desideri. È la presentazione a possibili acquirenti, e alla stampa, della gara per la messa in vendita di uno dei lotti “non più strumentali alle attività ferroviarie”, il ‘lotto c’. Un passo avanti in quel piano di autofinanziamento della nuova stazione inaugurata nel 2011 e costata 155 milioni di euro ma anche in quel processo di trasformazione di un pezzo di città che figurava tra gli obiettivi della nuova infrastruttura pensata come un innesto sul tessuto urbano di quell’alta velocità che corre sulle rotaie.

Alla conferenza stampa sono presenti tutti i vertici del gruppo Fs, gli amministratori delegati di Fs, Fs Sistemi Urbani e Rfi, la sindaca e gli assessori di competenza. Al tavolo si siede anche il presidente di Bnl, Luigi Abete, in qualità di ‘sponsor’, perché insieme a Bnp Paribas è stato il primo a scommettere sulla trasformazione dell’intera area comprando per 73 milioni di euro il ‘lotto’ dove oggi sorge la nuova sede del colosso bancario. Quel giorno è stata ufficializzata la vendita di un nuovo pezzettino che affaccia sul lato Nomentano al prezzo di 20 milioni di euro. Chi lo acquisterà potrà farci un albergo e qualche spazio commerciale con la promessa che presto l’intero orizzonte del quadrante della stazione Tiburtina sarà diverso.

Non c’è ancora un progetto ufficiale ma nei rendering, non molto lontano dal piazzale dove fino a un paio di settimane prima trovavano riparo decine di persone, spuntano due torri, a occhio e croce alte il doppio della già colossale sede di Bnp Paribas, che nei piani di Fs dovrebbero ospitare il suo nuovo quartier generale. “Attorno a questa stazione ci sarà la Roma del futuro” dicono dal tavolo. “Una città che porteremo ad aprile al Mipim (la fiera internazionale dell’immobiliare, ndr) di Cannes”.

A prescindere da ogni considerazione in merito al progetto che Fs ha costruito insieme al Campidoglio e dalla corrispondenza o meno che questo presenta con la città che ognuno di noi desidera o vorrebbe abitare, è chiaro che la Roma del futuro illustrata quel giorno non contempla la presenza di tutti quei migranti che, transitanti nel nostro Paese o rimasti fuori dai circuiti dell’accoglienza, hanno trovato riparo nelle tende di Baobab. Cosa sarebbe accaduto se uno degli investitori interessati a realizzare un albergo destinato ad un turismo se non di lusso per lo meno di alto livello dall’alto della vetrata della stazione Tiburtina avesse intravisto tende e baracche abitate da migranti?

Vista da lì la Roma del futuro pone le sue basi su un atto di esclusione. La città in vetrina rimarca la sua differenza dalla città degli ultimi, la sua separazione da tutto ciò che non fa parte di un disegno da mettere in vendita (Non accade solo a Baobab: anche le vicine, innovative e non allineate, Officine Zero, devono allontanarsi dall’area). E là dove non puoi fermare questa presenza, nemmeno con 22 sgomberi in due anni, una media di uno al mese, alzi muri. Non è un caso che a metà ottobre attorno alla tendopoli era stata costruita una recinzione di ferro, con la parte alta piegata verso l’interno quasi a sottolineare l’esercizio del controllo e della separazione forzata, della mancanza di libertà di movimento degli ospiti della tendopoli pur non essendo realmente ‘costretti’ a restare, pur non essendo in carcere.

Un'efficace rappresentazione fisica della città ai tempi dei decreti sicurezza, dei daspo urbani, della ‘stretta sui migranti’ e sulle possibilità di una loro permanenza legale sul territorio europeo che ben si concilia con le esigenze del mercato immobiliare e del mattone finanziario. Sullo sfondo il dato politico di una capitale, nel cuore del Mediterraneo, che si proietta nel futuro con rendering di alberghi e nuove piazze (certamente ben accolte) per i suoi cittadini ma non ha ancora avuto il coraggio di affrontare in maniera sistematica e dignitosa per tutti una delle più grandi sfide del presente per l'Italia e per l'Europa, quella delle migrazioni.

L’ex fabbrica della Penicillina, decine di accampamenti informali, la stazione Termini di notte, i bus della città alle prime ore dell’alba, quel piazzale Spadolini nuovamente sgomberato il 20 novembre, gli ingressi dei supermercati. La città che viviamo è attraversata da centinaia di frontiere, fili spinati e muri. È così che l’appello di Baobab Experience a Comune (che si è detto disponibile ad aprire un tavolo) e a Ferrovie dello Stato chiede uno spazio di solidarietà e prima accoglienza per i migranti ma pone anche una domanda importante: è possibile pensare a trasformazioni urbane che non escludano i più poveri?

Post scriptum. Un paio di settimane fa, sotto la redazione di Romatoday, mentre stavo parcheggiando il motorino, la presenza di un’ambulanza ferma in uno dei parcheggi al lato della strada ha attirato la mia attenzione. Tre operatori e una signora anziana circondavano un ragazzo africano chiedendogli se avesse bisogno di aiuto. Lui, spalle al muro e sguardo basso, ha respinto con un cenno ripetuto molte volte di fronte ad altrettante proposte, trasformando il suo gesti di rifiuto in una convulsione o una preghiera pronunciata con troppo trasporto. Non voleva alcun aiuto sanitario. I suoi interlocutori hanno desistito scocciati: “Andiamo da qualcuno che ha più bisogno di te” hanno detto con il tono che si usa con i bambini capricciosi. L’anziana signora si è allontanata appoggiandosi al suo bastone con lo sguardo interdetto di chi è sicuro di non essersi sbagliato. Il ragazzo è rimasto lì con le spalle al muro per diversi minuti a fissare fantasmi che non potevo vedere. Si era accorto che stavo osservando la scena così si è girato e mi ha guardata dritto negli occhi. Li ho riconosciuti subito. Aveva lo stesso sguardo terrorizzato di Josepha, la donna camerunense sopravvissuta per 48 ore in acqua in seguito ad un naufragio. Ma dov’era, in quel quartiere di ambasciate e palazzi signorili, quel mare mortale e pericoloso? Dov’era la frontiera invalicabile tra alberghi costosi e giardini verdi? Dove la Libia brutale da cui scappare? Come era possibile naufragare sull’asfalto della città, tra i negozi addobbati per Natale e le macchine che sfrecciano sulla via Nomentana? È rimasto lì a lungo, con le spalle al muro, le gambe un po’ allargate a garantirsi maggiore stabilità, la testa piegata su un lato e l’aria persa di chi ha è appena scampato a una tragedia e non sa ancora come raccontarlo. Ero davanti ad un naufrago. Avrà avuto a malapena vent’anni. Io ho continuato a legare il mio motorino prendendo tempo perché non sapevo davvero cosa fare. Hai fame? È tutto quello che sono riuscita a dire e mi sono sentita una scema perché di fronte ad un naufragio si ferma tutto, non si pensa all’intervista da scrivere, non si pensa che si è in ritardo, non si temporeggia legando il motorino, non si offre uno stupido trancio di pizza. Ha ripetuto per una sola volta il gesto della testa con cui pochi minuti prima aveva rifiutato l’intervento degli operatori dell’ambulanza e si è allontanato anche da me barcollando. Dietro di lui nel panorama dall’aria pariolina di cui conoscevo ogni particolare si apriva un abisso invalicabile. Si può sopravvivere alla povertà e alle percosse, si può sopravvivere al lavoro duro e addirittura al mare in tempesta, ho pensato, ma forse non al futuro negato in terra straniera, a una città escludente e inabitabile. Anche il mio volto ha l'aspetto di questa città escludente e inabitabile? Anche le strade e le piazze e gli scorci di questa città che ho imparato a riconoscere come una casa per me posso avere la forma brutale di una frontiera spinata? Sono rimasta ferma a guardarlo andare via, studiando un modo umano per attraversare quella distanza, per non soffocare del tutto in quel corpo a corpo a cui non ero pronta, nonostante tutto, per abbattere quel muro insopportabile cresciuto proprio lì, vicino al mio motorino. 

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