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La linea gialla

La linea gialla

A cura di Matteo Scarlino

No, non è l'arroganza di Calenda a sabotare le primarie

OPINIONI - L'annuncio della candidatura dell'ex ministro ha svegliato i dem romani. Le primarie, messe da parte dalla segreteria e umiliate dalle logiche di corrente, tornano buone per dare una parvenza democratica alla scelta, ma soprattutto per scacciare il candidato sgradito

L'annuncio della candidatura di Carlo Calenda per le comunali di Roma ha svegliato il partito democratico romano. Dormienti e silenti per quattro anni, incapaci di imbastire una minima alternativa all'amministrazione pentastellata, impegnati a scalzare il "nemico" di corrente per guadagnarsi uno scranno in Aula Giulio Cesare, i dem della Capitale da domenica sera sbraitano gridando contro l'autoinvestitura dell'ex ministro. Lo accusano di "arroganza", di "non avere voti", di "non conoscere Roma", di "aver ripudiato il partito e ora di cercarne il consenso", ma soprattutto di non essere democratico perché non accetta le primarie

Le primarie, il totem dem, a Roma più che altrove, sono tornate ad essere, da due settimane a questa parte, lo strumento imprescindibile per scegliere il candidato sindaco. Guarda caso da quando Calenda ha fatto trapelare l'intenzione di candidarsi. Da domenica poi senza primarie a Roma non si può proprio vivere e il leader di Azione è diventato il ducetto che soffoca la democrazia, impedendo ai romani di esprimersi e di scegliere liberamente il proprio candidato sindaco. 

Mettendo da parte le valutazioni su Carlo Calenda, giova però ricordare come la delegittimazione delle primarie venga da lontano e non sia opera del figlio di Cristina Comencini, ma dell'attuale dirigenza e soprattutto delle insane logiche, dure a morire, del partito romano. Non è un segreto per nessuno come la segreteria nazionale (che coincide oggi anche con il leader romano) puntasse sulla scelta di un nome forte. Enrico Letta, Paolo Gentiloni, Roberto Gualtieri, David Sassoli: nel corso dei mesi la corte ad ognuno di loro è stata piuttosto sfacciata. A turno, ognuno di loro, ha risposto "no, grazie" e da parte del partito o della coalizione nessuno (o quasi) si è posto delle domande, fosse anche la più sfrontata e romana: "Ma chi te l'ha chiesto...?". In realtà qualcuno (il Capo) l'aveva chiesto, in barba alle primarie sullo statuto.

Già, il nome forte. Altro che primarie. Per Roma da tempo è questa la ricetta dell'asse che governa oggi il partito, Zingaretti e Franceschini. Non le primarie, messe da parte, ignorate, magari buone solo per acclamare "il nome forte". Il problema è che se si evoca il nome forte, appare ovvio che chi forte si ritiene per grazia ricevuta (o per sondaggi commissionati) si proponga, con orgoglio e arroganza, anche lui senza passare dalle primarie.  

Primarie che appaiono a Roma l'abito democratico per vestire logiche di partito che di democratico non hanno nulla. Nel 2016 la segreteria Renzi chiese a Roberto Giachetti il sacrificio e lui si immolò nell'improba sfida a Virginia Raggi. Per trovare un contendente per le primarie passò del tempo ed il solo a farsi avanti fu Roberto Morassut per una contesa tanto surreale quanto inutile. Anche in quel momento, di fatto, si stava delegittimando lo strumento delle primarie, ma anche allora nessuno parlò. 

Primarie delegittimate (dalla storia, ndr) anche nel 2013, quando fu catapultato sulla Capitale un marziano, Ignazio Marino, che riuscì, senza aver mai fatto politica a Roma e per Roma, senza aver mai visitato una periferia, senza aver mai parlato con il partito romano, a battere David Sassoli e Paolo Gentiloni. Merito delle correnti e delle truppe cammellate che, ricevuti ordini dall'alto, in massa si sono catapultate a votare il chirurgo ligure al grido di "Daje!".

Quello stesso sindaco che però, dopo alcuni mesi, fu ripudiato dall'assemblea capitolina complice la mancanza di dialogo con il partito e i consiglieri. Quello stesso sindaco contestato per la sua assenza in periferia e costretto, due giorni prima dello scoppio di Mafia Capitale, a cospargersi il capo di cenere al Quirino. Due giorni dopo scoppiò Mafia capitale e il marziano diventò l'utile sindaco per tenere in sesto la baracca. E la settimana scorsa lo stesso Marino ha rinnegato l'utilità delle primarie. E tra chi allora lo votò, in maniera neanche troppo segreta, oggi c'è chi dice: "Forse avessimo scelto Sassoli la storia sarebbe stata diversa...".

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