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A cura di Flaminia Bolzan

Fuga dal Coronavirus: non la prigionia, ma la furbizia. Manzoni aveva già previsto tutto

Una lettura degli aspetti psicologici e sociali di quanto accaduto tra la notte di sabato e domenica

“Sono partiti prima della mezzanotte. Nonostante le grida che proibivano di lasciare la città e minacciavano le solite pene severissime, come la confisca delle case e di tutti i patrimoni, furono molti i nobili che fuggirono da Milano per andarsi a rifugiare nei loro possedimenti in campagna.”

Queste parole potrebbero rappresentare la didascalia perfetta per qualche immagine che nei giorni scorsi circolava sul web, ma è proprio così che Alessandro Manzoni raccontava la peste del 1630 ed è attraverso la sua opera e le sue parole che vorrei iniziare a riflettere insieme a voi su quell’habitus mentale che la stessa letteratura ci aiuta a comprendere.

L’esodo avvenuto nella notte al timore della chiusura del territorio lombardo (misura attuata nell’interesse comune allo scopo di arginare efficacemente il rischio contagi) si rappresenta come una vera e propria fuga, prima di tutto dalle “regole”.

Al netto di ogni valutazione soggettiva relativa alle modalità di divulgazione di una bozza di decreto, oggi definitivo, che avrebbe meritato un’attenzione maggiore da parte delle Istituzioni, però, le domande che probabilmente in tanti si sono posti sono quelle relative ai motivi che hanno spinto le persone ad agire in maniera sconsiderata.

Ora che siamo tutti “nella stessa barca” le limitazioni al movimento favoriscono forse una stasi riflessiva. Riprendendo proprio il Manzoni, quindi, ci possiamo rendere conto di come l’accaduto non sia da imputare alla semplice “paura della prigionia”, ma ad un atteggiamento diffuso di presunta “furbizia” nei termini di capacità di contravvenire a regole e divieti che sfortunatamente costituiscono uno stereotipo anche nella definizione dell’italiano.

Mi spiego meglio, l’esodo si rappresenta formalmente come un elogio dell’egoismo dove le persone hanno dimostrato una spinta ad agire unicamente in relazione al proprio vantaggio, escludendo di fatto ogni possibilità per il prossimo.

Le misure che sono attualmente previste su tutto il territorio nazionale prevedono delle oggettive limitazioni, inerenti principalmente quelle attività che possiamo considerare ludiche o comunque non di primaria necessità e se la fuga da una minaccia è da considerare come un aspetto naturale e istintuale dell’essere umano, le modalità con cui questa viene attuata ne definiscono invece la “qualità”.

Sotto il profilo psicologico, pertanto, l’accaduto ha evidenziato in maniera incontrovertibile la perdita del senso di comunità, laddove in un marasma confusionario l’istinto prevalente non è stato quello di considerare una “fuga” dalla minaccia che tutelasse anche la collettività, magari attraverso l’auto imposizione di un piccolo cambiamento delle proprie abitudini in senso restrittivo. Al contrario il pensiero del “tanto non capita a me”, tipico di un infantilismo in cui l’adulto/bambino pervaso da un senso di invincibilità pone sé stesso al centro del mondo anche in una situazione in cui lo Stato, che qui rappresenta l’Autorità, indica una strada da percorrere, diviene il manifesto di quell’habitus mentale che piano piano dobbiamo riuscire a scardinare nella ricerca di una via di fuga che sia davvero dotata di senso.

Fuga dal Coronavirus: non la prigionia, ma la furbizia. Manzoni aveva già previsto tutto

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