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A cura di Flaminia Bolzan

Unabomber alla romana: il profilo psicologico del bombarolo delle buste esplosive

Tra il 1994 e il 2006 ha agito l'"Unabomber" italiano.  Per fare chiarezza stiamo parlando di un soggetto che in quel periodo ha seminato il terrore nella zona nord est dell’Italia, precisamente tra Pordenone e Lignano Sabbiadoro, in relazione ai suoi atti criminali che consistevano nella collocazione in luoghi pubblici di ordigni improvvisati.

Il suo soprannome è dovuto al fatto che in America, tra il 1978 e il 1995 l’ex professore universitario Ted Kaczynski aveva agito in maniera analoga ed era stato condannato all’ergastolo per aver inviato, nell’arco di diciotto anni, numerosi pacchi postali “farciti” di esplosivi ad un numero importante di persone provocando la morte di tre di questi e cagionando ben 23 ferimenti.

Nei giorni scorsi ha creato scompiglio la notizia relativa al recapito di tre plichi contenenti esplosivo in meno di ventiquattro ore. Una delle tre buste, prima della consegna, è letteralmente saltata in aria mentre si trovava ancora nel centro di smistamento postale di via Capannini, a Fiumicino. La persona a cui era indirizzata è una donna, ex dipendente dell’Università di Tor Vergata che ricopriva incarichi amministrativi.

La seconda destinataria è invece un’impiegata dell’Inail alla quale la busta è stata consegnata presso la sua abitazione nel quartiere di Colle Salario e la terza una ex dipendente sessantottenne dell’Università del Sacro Cuore residente nella zona della Balduina. Le tre donne non sembrano avere connessioni dirette tra loro e i plichi contenevano un quantitativo di materiale esplosivo non sufficiente per uccidere. Il trade union potrebbe essere identificato nella modalità di “confezionamento” dei pacchi bomba: una busta in formato A4 gialla contenente un innesco attivabile all’apertura e i caratteri utilizzati per scrivere gli indirizzi. I mittenti indicati sulle buste sono stati chiaramente falsificati e scelti con attenzione, nell’intento di favorire la fiducia nell’apertura da parte delle destinatarie.

In relazione a questi pochi dati non è semplice provare ad operare una profilazione del soggetto “inviante”, ma è indubbio che l’esperienza e l’analisi della casistica pregressa, unitamente alle evidenze statuite dalla letteratura criminologica, vengono in nostro aiuto nel tentativo di identificare la possibile connessione tra questi eventi che, come abbiamo evidenziato nelle righe precedenti, presentano ad un occhio attento alcune analogie che permettono appunto di correlarli l’uno con l’altro.

Anzitutto il sesso delle vittime, tre donne. Tre incarichi in altrettante Istituzioni. Incarichi che probabilmente, pur nella loro diversità, potrebbero essere riconducibili ad una matrice comune data dai rapporti che i rispettivi contesti professionali di appartenenza potevano avere con soggetti fisici o giuridici rispetto ai quali il “bombarolo” vuole agire in maniera dimostrativa, oppure il soggetto agente è venuto direttamente in contatto con i medesimi contesti e da questi si è sentito in qualche modo “danneggiato”.

La prima domanda che dobbiamo farci è proprio quella relativa alla scelta vittimologica, tenendo conto che il dinamitardo usa un mezzo lesivo che non presuppone un contatto diretto con la vittima, né sceglie quest’ultima con accurata precisione (nonostante i plichi esplosivi siano stati infatti inviati a persone specifiche, bisogna tener conto che una bomba, esattamente come è successo nel caso di Fiumicino, può esplodere prima e in mani diverse da quelle preventivate) possiamo quindi dedurre che l’intento di “ledere” non ha a che fare in via diretta con le destinatarie.

Nel caso in oggetto, tra l’altro, facciamo riferimento ad un atto meramente dimostrativo in quanto gli ordigni, dei quali sappiamo ancora poco in relazione alla complessità di realizzazione (e pertanto non abbiamo un’informazione diretta sulle competenze del soggetto in tal senso) non contenevano un quantitativo di esplosivo sufficiente per uccidere una persona.

Gli incarichi ricoperti dalle tre donne potrebbero averle portate ad apporre la loro firma su qualche documento pubblico e quindi questo le avrebbe rese facilmente identificabili, mentre la scelta accurata dei mittenti potrebbe essere stata operata partendo da una conoscenza indiretta della cerchia di relazione di ognuna (alla quale non è difficile risalire anche solo tramite la consultazione dei profili attivi sui social network).

Il soggetto che ha agito non ha necessità di controllare la scena del crimine, né tantomeno di usare la violenza fisica, ma il suo interesse è quello di causare un danno (nel caso in oggetto non il massimo possibile), restando nell’ombra. Questa statuizione è suffragata dall’assenza di rivendicazione dell’agito. Parliamo probabilmente di un soggetto agente di sesso maschile che ha difficoltà a relazionarsi con il contesto sociale o con gli “ideali” che le persone a cui ha indirizzato i plichi rappresentano, la sua gratificazione origina dalla “pubblicità” dell’evento e la dinamica psicologica che lo contraddistingue è focalizzata sull’azione criminale più che sull’obiettivo in quanto l’esito desiderato non è la morte delle persone, bensì la consapevolezza di avere il controllo attraverso l’ordigno.


 

Unabomber alla romana: il profilo psicologico del bombarolo delle buste esplosive

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