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FAQ Rom

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A cura di Danilo Giannese

Vite invisibili. La storia di Brenda

Sono molto numerosi i casi di rom che, pur essendo nati e cresciuti in Italia, non hanno la cittadinanza italiana né i documenti. Non possono sposarsi, accedere all'assistenza sanitaria, lavorare regolarmente e godere degli diritti degli altri cittadini

"Una volta in un parco un signore mi disse: ‘Se io fossi il Presidente della Repubblica manderei subito tutti i rom al loro Paese’. Gli dissi: ‘Io sono nata e cresciuta in Italia, dove dovrei andare?’ Lui si mise a ridere e poi iniziammo a chiacchierare amichevolmente". A raccontarmi questo aneddoto è Brenda, una ragazza di 22 anni che vive in un “campo rom” della Capitale, uno dei sette cosiddetti “villaggi attrezzati”. 

Il suo aneddoto inizialmente mi ha fatto sorridere. Poi però il sorriso ha lasciato il posto all’amara constatazione della condizione di fragilità giuridica in cui numerosi rom, nella nostra città e nel nostro Paese, sono costretti a vivere. Con tutte le conseguenze del caso. Brenda, infatti, pur essendo nata e cresciuta a Roma, pur non essendosi mai spostata dalla città ( e questo dovrebbe far riflettere chi ancora si ostina a chiamarli “nomadi”), non ha la cittadinanza italiana e per moltissimo tempo è stata priva dei documenti. 

Vivere senza i documenti vuol dire essere in tutto e per tutto invisibili. Vuol dire non poter accedere all’assistenza sanitaria, non poter votare, non poter viaggiare, non potersi sposare. Vuol dire anche non poter lavorare regolarmente. Sarebbe bene tenerlo a mente quando si spara a zero contro queste comunità, accusandole di non voler lavorare, di non volersi integrare. Decenni di politiche segregative nei confronti dei rom (i campi-ghetto esistono solo in Italia) e ostacoli di carattere giuridico, come la storia di Brenda dimostra, contribuiscono a mantenere i rom nelle nostre città in una condizione di esclusione sociale e marginalizzazione. 

Da un lato li accusiamo di non volersi integrare, ma nei campi ce li abbiamo messi noi, individuando per loro una soluzione che viaggia su un binario parallelo rispetto ad altre categorie socialmente vulnerabili, dall’altro si fa poco o nulla per rimuovere quegli ostacoli di carattere giuridico favorendo così la loro inclusione sociale.

«Mi sento italiana al 100%, parlo l’italiano e ho sempre vissuto qui. Eppure non vengo considerata una cittadina e per evitare il rischio di essere espulsa ho dovuto chiedere il permesso per motivi umanitari, come avviene per coloro che scappano dalle guerre», racconta Brenda, che è riuscita a ottenere questo tipo di permesso di soggiorno, che però è temporaneo e rinnovabile solo un numero limitato di volte, solo un anno fa.

Brenda ha ereditato la sua condizione di “invisibile” dai suoi genitori, che sono apolidi di fatto: non hanno, cioè, né la cittadinanza italiana né quella del loro Paese di origine, il Montenegro. In parole povere, non esistono: né per l’Italia, né per il Montenegro. Per evitare questo rischio, i giovani rom, non appena maggiorenni, dovrebbero richiedere permesso di soggiorno e titolo di viaggio e, entro il compimento del diciannovesimo anno di età, dovrebbero quindi far richiesta della cittadinanza

Nella realtà, tuttavia, accade troppo spesso, purtroppo, che né i genitori né i loro figli siano a conoscenza di questi diritti di cui i giovani sono in possesso. Anche Brenda, pur essendo nata e cresciuta a Roma, si è trovata in questa condizione. Accade quindi che a 22 anni Brenda, e tanti giovani nella sua stessa situazione, si riscoprano invisibili nel Paese e nella città in cui sono nati, in cui hanno sempre vissuto e di cui hanno imparato la lingua.

«Così è come se non fossi un’italiana vera. Come se non fossi cittadina di nessun Paese. Anche se i miei genitori vengono dal Montenegro, io là non ci ho mai messo piede in vita mia. Non conosco neanche la lingua e se mi capita di ascoltare una canzone montenegrina, devo chiedere agli altri il significato delle parole», dice a malincuore Brenda.

Vite invisibili. La storia di Brenda

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