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Cose da Pazzi

Cose da Pazzi

A cura di Enrico Pazzi

Virginia Raggi e l'orizzonte del tinello

Guardiamoci negli occhi, leggiamo gli editoriali, le disamine, i commenti e ci renderemo conto che tutto ciò che viene scritto e dichiarato è solo un continuo flusso di sfoghi senza soluzione di continuità

All’indomani del clamore mediatico della polizza di Virginia Raggi c’è un senso di vuoto. Di pochezza spirituale, di disarmante mediocrità. Guardiamoci negli occhi, leggiamo gli editoriali, le disamine, i commenti e ci renderemo conto che tutto ciò che viene scritto e dichiarato è solo un continuo flusso di sfoghi senza soluzione di continuità.
Lo spazio ideale si è fatto piccolo, minuscolo, opprimente, infelicemente doloroso. Siamo costretti a dibattere su un sindaco e le sue presunte amicizie interessate, i suo flirt più o meno fondati, le sue abitudini private, il suo imbarazzante circoletto amicale. Ci sfugge qualcosa: dov’è la politica? Dove il progetto incitativo di vita in comune? Dove la visione d’insieme?
E’ dai tempi di Mani Pulite che lo spazio si è fatto piccolo. Piccolissimo. La visione politica ha lasciato il posto al chiacchiericcio. L’agone del confronto politico è stato demandato ai giornalisti di cronaca giudiziaria che oggi, in questo fazzoletto di desolata terra di confronto, scrivono anche di politica.
E’ dai tempi di Paolo Brosio, inviato davanti alla fermata del tram con alle spalle il Palazzo di giustizia di Milano, incalzato da Emilio Fede al Tg4, che ci siamo abituati a pensare che più che l’ideale, può fare l’avviso di garanzia, le condanne in primo grado, l’oblio della colpa, il senso di ingiustizia. Fu, primo fra tutti, Gianfranco Funari con i suoi talk prima sulla Rai e poi sulle reti Mediaset, a coniare uno stile giornalistico ridotto alla pubblica gogna per l’ospite politico di turno. Fu allora che si iniziò a confondere lo scherno con il giudizio politico.
Il presenzialismo mediatico con l’efficacia del concetto. Il risultato fu un desolante restringimento dell’orizzonte. Con la necessità di essere efficaci, proferendo la battuta giusta, il sorrisetto compiacente, la mossetta acchiappa applausi e confondendo il consenso di questa deprimente tribunetta elettorale con il consenso maturo di un intero Paese. 
Il circo mediatico, la compiacenza degli esponenti politici, che si facevano sempre più guitti-giullari, con il giornalismo ridotto a conduzione circense di bestie assuefatte al glucosio delle telecamere. Restringendo l’orizzonte allo spazio di uno spot. Frasi disarticolate, sincopate dalle chiacchere dell’altrui ospite, al quale veniva insegnato che per fiaccare l’avversario bastava interromperlo ritmicamente con innocue imprecazioni. 
Il meccanismo ha raggiunto punte di eccellenza, lungo tutti gli anni ’90 sino all’inizio del nuovo millennio, con il talk politico istituzionalizzato a spettacolo di prima serata. Nulla sarebbe stato come prima. Le parti in scena erano state oramai codificate. Tesi, antitesi, con buona pace della sintesi. Il buono, il brutto e il cattivo. Isso, issa e o’malamente a darsele di santa ragione. Botte che però, mano a mano che gli anni passavano, diventavano sempre più fiacche, come ad assistere ad un match di wrestling.
Loro a menarsi per finta e il pubblico intento a volerci credere. Il giornalista sempre più relegato a bravo padrone di casa, intento a coltivare rapporti trasversali, per assicurarsi l’accettazione a partecipare da parte dell’esponente maggiormente sugli scudi in un dato momento, che a studiare le faccende e a porre domande autentiche. Il risultato?
Un canovaccio oramai collaudatissimo, nel quale gli unici elementi di verità erano ridotti a cogliere la leggera smorfia di contrarietà, l’impercettibile impaperamento, la lieve aggressività di un’occhiata, quando non la clamorosa gag dell’istrione. Ricordate Silvio Berlusconi che spolvera la sedia sulla quale poco prima era seduto Marco Travaglio? Ecco, quel brano di bravura scenica assoluto rappresenta la cifra del dibattito politico dell’ultimo trentennio. 
La politica è diventata un format svuotato di contenuto. Enrico Mentana intervista Virginia Raggi, all’indomani del suo drammatico interrogatorio, quasi stesse svolgendo una pratica da travet. Rinnovando quella coazione a ripetere del Sacro Talk, che di politico oramai non ha più nulla. Sullo sfondo rimangono promesse politiche di rinnovamento, di rivoluzione, di vicinanza alle esigenze dei cittadini romani, di prossimità spirituale. Ed invece, ad otto mesi dalla sua elezione, abbiamo un sindaco ostaggio del suo passato, della sua oscura cerchia di collaboratori, del suo Movimento governato da un totem sfuggente. E nulla può Mentana con le sue innocue domande.
Perché manca la riflessione, fagocitata dalla necessaria ed incessante marcia dei fatterelli. 
Costringendo gli spettatori, i cittadini, gli elettori a proiettare le proprie istanze sull’orizzonte di un tinello.
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