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Cose da Pazzi

Cose da Pazzi

A cura di Enrico Pazzi

Il commiato del Marziano. Recensione di un libro acefalo

La prosa del libro non è epica, né tantomeno coinvolgente, tranne che per i primi due capoversi del terzo capitolo, nei quali si fa una rapida cronaca di un intervento chirurgico di trapianto di fegato. Ma è solo un lampo nelle oltre trecento pagine di cose sapute e risapute, trite e ritrite dalla cronaca politica nazionale e romana. Manca lo spirito eroico di un protagonista splendidamente perdente. Il rimpianto di ciò che si sarebbe potuto fare e non è stato possibile fare. O più semplicemente, non si è fatto per manifesta incapacità. Non c’è lo spiazzamento nel racconto di quella che comunque è stata una straordinaria avventura. Un mandato di 28 mesi costellato da tutto ciò che la politica italiana può offrire, nel bene e nel male.

Al termine della lettura di questo libro, verrebbe voglia di riscriverlo con parole più vere, con spirito più franco, con metafore più efficaci. Con un po’ di sangue e di merda. Ma ognuno si scrive il proprio libro. E in fondo è giusto così. Si tratta di “Un marziano a Roma”, il libro testamento dell’ex-sindaco Ignazio Marino. Il testo del libro è contrassegnato da una scrittura elementare, punteggiata da inutili e stucchevoli digressioni su cenni storici dei luoghi del centro città nei quali la vicenda per lo più si svolge, sugli straordinari incontri fatti da Marino con celebri personalità politiche o su come dovrebbe andare il mondo e invece purtroppo non va.

E questo stile narrativo, da vecchia zia permalosa seduta sul sofà durante il the delle 5, trova la sua massima espressione nel capitolo dedicato alla faccenda di Papa Francesco. Marino spende un intero capitolo del libro per raccontare tutte le volte che ha incontrato il Papa e di come il Pontefice in realtà non aveva alcuna intenzione di metterlo in difficoltà allorquando dichiarò, su un volo transoceanico, che non era stato lui ad invitare Marino a Filadelfia. In questo racconto auto-apologetico, Marino se ne guarda bene dal raccontare di come e perché durante la sua campagna elettorale andò in visita presso la Cooperativa sociale 29 giugno di Salvatore Buzzi, a favore della quale aveva intenzione di devolvere il suo primo stipendio da primo cittadino. Marino si racconta come candidato fuori dalle correnti del Pd romano e nazionale, relegando Goffredo Bettini, artefice massimo della sua designazione e candidatura, ad appena una riga di testo. Mettendolo tra i tanti che nel Pd gli avevano chiesto di fare il sindaco di Roma per scongiurare la vittoria del Movimento 5 Stelle.

E pensare a Goffredo Bettini come alieno dal correntismo romano è opera di grande fantasia. Così come, non fa alcuna menzione della sua piccola Onlus “Imagine”, che può disporre di un locale a San Lorenzo di proprietà del Comune di Roma a fronte di un affitto irrisorio. In questo caso si limita a scrivere, trattando la faccenda di Affittopoli, “Diverso è il discorso quando si affronta il tema dei privati. Anche in questo caso molte istituzioni, da Sant’Egidio alla Caritas, alla Fondazione Di Liegro, ma anche enti più piccoli e meno noti, utilizzano spazi di proprietà del Comune per svolgere servizi spesso essenziali per le persone della città, e per questo il canone richiesto non può che tenere conto dell’utilità della loro azione”. Come verrebbe da dire, ogni riferimento è puramente casuale.

Ed ancora, non c’è nessun accenno alla relazione di Raffale Cantone che accomuna la giunta Marino a quella di Alemanno per numero di affidamenti diretti di commesse, mortificando lo strumento dell’evidenza pubblica e della libera concorrenza. Tanto più che gran parte di quegli affidamenti sono andati ad ingrassare i conti di cooperative e società legate alla banda di Mafia Capitale. Avrebbe potuto seguire l’esempio del suo ex assessore Alfonso Sabella che, nel suo libro “Capitale infetta”, spiega come e perché l’amministrazione capitolina era di fatto costretta a ricorrere ad affidamenti diretti, continuando la nefasta prassi della giunta Alemanno. Dimostrando, Sabella sì, coraggio nell’affrontare anche le questioni più spinose. Ignazio Marino utilizza questo libro come una clava, buona per colpire i suoi avversari politici di quel Pd nazionale e romano che gli hanno sin da subito messo i bastoni tra le ruote. Con punte di inusitato acidume. Come quando fa seguire al nome dell’ex consigliera comunale del Pd Micaela De Biase la locuzione “moglie del ministro Franceschini”. Come se questa unione matrimoniale fosse una prova di una qualsivoglia colpevolezza. Lo fa per due volte e la cosa è davvero stucchevole.

Laddove mostrare così tanto rancore mette a disagio il lettore e non lo fa sentire partecipe di una vicenda universale, quanto piuttosto di una disputa condominiale. Lasciando a chi legge la sensazione che chi scrive non abbia il coraggio di esplicitare l’invettiva. Muovendo ad una sensazione, in fondo, di compassione. I luoghi del libro di Ignazio Marino sono il centro storico, il Campidoglio, il terrazzino dell’ufficio del sindaco con vista sui Fori, l’Opera di Roma, i musei del Tridente, le vie di sanpietrini percorse con la sua bicicletta. Ma quasi mai le periferie abbandonate di Roma. E la cosa non meraviglia. Infatti il Marino che viene fuori da “Un marziano a Roma” sembra più un turista in gita nella Capitale.

Così come, nel libro non si fa menzione dei campi abusivi del “Rom Sinti e caminanti”, come aveva decretato che si dovessero chiamare, con tanto di circolare, coloro che il popolino di Roma definisce “zingari”. Si parla di Mafia Capitale unicamente per stigmatizzare come diversi esponenti del Pd romano vi fossero coinvolti. A proprio uso e consumo. Ogni tematica che ha caratterizzato la sua esperienza da sindaco viene utilizzata unicamente per difendersi o per attaccare. O entrambe le cose assieme. In una disperata ricerca di consenso, di giustificazione. Ex post.

Parla dei suoi assessori non in termini di capacità e di competenze, ma mettendo in risalto chi gli è stato più o meno fedele. Non una squadra di governo, ma un gruppo di leali scudieri o di perfidi traditori.

Al centro delle trecento pagine del libro c’è solo Ignazio Marino.

Intorno a lui ruotano, al pari di piccolissimi ed insignificanti pianeti, assessori, consiglieri, magistrati, prelati, lobbisti, cittadini e sostenitori. Anche Papa Francesco viene relegato a figurina buona a riabilitare la sua immagine. Lui è il Sindaco-Sole che tutto avrebbe voluto muovere, contro il quale però tutti tramavano, in una grottesca Versailles all’ombra della Cupola di San Pietro e del Colosseo. Ma in fondo resta una sensazione di desolante pietà nei confronti di un sindaco che ha fallito. Ha fallito il governo di Roma. Ha fallito la difesa, ha fallito l’invettiva.

Ultima cosa. Un’immagine che descrive più di mille parole la figura di Ignazio Marino e il mood di questo libro la si ritrova a pagina 11. E’ l’ultima volta che Marino mette piede nel suo ufficio da sindaco in Campidoglio. Sta portando via le sue cose, ma poco prima di uscire di scena, “Per un’ultima volta presi un asciugamano, lo bagnai con l’acqua tiepida del rubinetto e con esso rimossi qualche piccola riga nera dal corridoio che conduceva al terrazzino. Era una mia abitudine per evitare che le strisce lasciate dalle borse degli ospiti deturpassero quel luogo così unico”.

Marino nel suo ufficio da sindaco che cancella i segni del suo mandato. Quell’ufficio nel quale troneggiava la statua della Dea Fortuna da lui fortemente voluta. Una musa acefala. Un po’ come Roma. Un po’ come la sua amministrazione. Un po’ come il suo libro. Buona vita Marziano.

Il commiato del Marziano. Recensione di un libro acefalo

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