Il miglior amico dell’uomo uno scudo contro il Coronavirus? Lo studio
Lo studio ha messo in luce una grande somiglianza nella struttura della proteina spike del Coronavirus umano con quella del cane e del bue, generando l'ipotesi che la vicinanza a questi animali possa dotare l'uomo di difese immunitarie 'naturali'
E se il migliore amico dell'uomo fosse anche lo scudo perfetto per allontanare il Coronavirus? Uno studio italiano effettuato dall'Università Cattolica di Roma, in collaborazione con l’Università Magna Graecia di Catanzaro e l’Università di Milano, mette in luce questa possibilità (ancora tutta da dimostrare).
Gli studi svolti hanno permesso di constatare una grande somiglianza nella struttura della proteina spike del Coronavirus umano con quella del cane e del bue, suggerendo dunque l’ipotesi che l’esposizione a questi animali domestici possa dotare l'uomo di difese immunitarie ‘naturali’, in grado di attenuare i sintomi di un’eventuale infezione da COVID-19.
L'argomento viene trattato nelle pillole Anti-Covid del Policlinico Agostino Gemelli, le notizie in pillole che informano sul Coronavirus. Ancora, come anticipato, questa ipotesi è tutta da dimostrare, ma se confermata potrebbe portare a nuovi trattamenti, vaccini e approcci diagnostici.
Il cane scudo per l'uomo contro il Coronavirus? Lo studio
Lo studio suggerisce anche una possibile spiegazione alla grande variabilità dei quadri clinici osservati nel caso di infezione da COVID-19 (da quelli fatali, a quelli paucisintomatici). E dimostra l’importanza delle ricerche con approccio globale, sul modello ‘One Health’ dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il nostro pianeta è come un gigantesco organismo vivente, le cui singole parti, siano esse il mondo animale, quello vegetale, l’uomo, la condizione dei fiumi e dei mari, contribuiscono ognuna di per sé, ma tutte insieme in un grande unicum, a determinare lo stato di salute o di malattia dei singoli, ritiene l'Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo concetto di salute globale. Ma lo studio effettuato dall'Università Cattolica del Sacro Cuore, incarnando l'approccio "One Health" fanno scendere in campo proprio gli animali, finora considerati parte del problema (l’infezione da COVID-19 nasce come una zoonosi), come possibile parte della soluzione. Ma andiamo per ordine.
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La proteina Spike: la ‘chiave’ del contagio
Il ‘repertorio’ delle proteine codificate dal genoma del Coronavirus consiste in 4 proteine strutturali principali e circa 16 proteine non strutturali maggiori. Tra le 4 principali, la cosiddetta proteina ‘Spike’ (o proteina-S) è quella coinvolta nel tropismo per l’ospite, in quanto responsabile del ‘riconoscimento’ e del legame con il recettore ACE2 (Angiotensin Converting Enzyme2), esposto sulla superficie di alcune cellule dell’organismo. Il legame della proteina Spike al recettore ACE2 consente al virus di entrare nelle cellule e di infettarle. Il recettore ACE2, il bersaglio di azione del virus, è molto conservato a livello evolutivo ed è presente in tutti gli animali. E’ solo una piccola sequenza aminoacidica a fare la differenza tra la proteina spike dell’uomo e quella degli animali; è presente in alcuni animali, come il pipistrello, ma non in altri.
Di recente è stato evidenziato che esiste un’elevata somiglianza nella sequenza della proteina spike in diverse specie animali (uomo, cani, animali domestici), fatto questo che suggerisce una potenziale interazione delle particelle virali con un’ampia gamma di cellule ‘ospite’.
Lo studio di bioinformatica pubblicato online su Microbes and Infection ha realizzato un’analisi ‘in silico’ (un confronto tra identikit molecolari di coronavirus infettanti specie animali diverse, mediante apposito software), consistente in un’analisi dell’omologia della sequenza aminoacidica della proteina Spike del SARS CoV-2, confrontandola con quella di altri coronavirus ‘imparentati’ da un punto di vista tassonomico e dotati di un tropismo per altre specie animali. I risultati hanno rivelato una bassa omologia di sequenza della proteina Spike del SARS-CoV2 con quella del coronavirus respiratorio del cane (36,93%), del coronavirus bovino (38,42%) e del coronavirus enterico umano (37,68%).
“Ma andando a restringere l’analisi alle sequenze che si sa essere riconosciute dal sistema immunitario (i cosiddetti epitopi del SARS CoV-2) – spiega il professor Maurizio Sanguinetti, Direttore del Dipartimento Scienze di laboratorio e infettivologiche del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Ordinario di microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore - abbiamo riscontrato un’elevata percentuale di omologia rispetto ai coronavirus tassonomicamente correlati. Di particolare interesse risulta la grande somiglianza delle sequenze dell’epitopo 4 del coronavirus respiratorio canino con quelle del SARS CoV-2”.
COVID-19: come spiegare quadri clinici tanto diversi, da forme inapparenti a quelle fatali
A livello clinico, nell’uomo, l’infezione da COVID-19 può presentare quadri caratterizzati da un’elevata letalità, soprattutto nel caso di persone anziane o affette gravi patologie o malattie croniche (BPCO, ipertensione, diabete, cardiopatia ischemica), accanto ad altri (e potrebbero essere la maggior parte: c’è chi stima che possano essere fino a 6-7 per ogni caso COVID-19 accertato) che decorrono in forma lieve, o addirittura inapparente, e che guariscono da soli, senza bisogno di intervento medico.
I risultati dello studio appena pubblicato aprono la strada a nuove ipotesi di lavoro per cercare di comprenderei meccanismi biologici alla base dell’infezione virale. In particolare, gli autori dello studio ipotizzano che una precedente esposizione al coronavirus del cane potrebbe garantire un’immunizzazione almeno parziale, in grado di attenuare i sintomi di un’eventuale infezione da COVID-19.
Somiglianze importanti sono emerse anche tra gli epitopi della proteina Spike del SARS CoV-2 e il coronavirus bovino (il cui genoma e le cui proteine sono stati inclusi in alcune delle formulazioni vaccinali impiegate in medicina veterinaria su animali da reddito).
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“Gli animali insomma – prosegue il professor Sanguinetti - potrebbero aver avuto insomma un ruolo critico nell’innesco e nell’evoluzione di questa epidemia (che ricordiamo essere una zoonosi), sia come reservoir virale, ma anche agendo come fonte ‘benefica’ di particelle virali immuno-stimolanti, in grado di offrire protezione contro il SARS CoV-2 circolante, attenuandone i sintomi”. Tuttavia l’esposizione ricorrente al virus, in una stretta finestra temporale, potrebbe aumentare il rischio che siscateni una risposta immunitaria violenta e portare quindi a quadri clinici più gravi o addirittura fatali. “E’ importante sottolineare – afferma il professor Urbani - che si tratta solo di ipotesi di lavoro, che andranno vagliate da studi ed esperimenti ad hoc. Ci piacerebbe arrivare a dimostrare un giorno che l’esposizione ad alcuni animali domestici, ci consente di sviluppare delle immunoglobuline protettive, che permettono di fare un’infezione da COVID in forma attenuata, in caso di esposizione. Ma per adesso è senz’altro prematuro fare queste affermazioni.”
“Si tratta tuttavia di un’ipotesi suggestiva, con un’importante solidità scientifica – ribadisce il professor Sanguinetti – vista l’elevata somiglianza delle proteine di coronavirus, che contano da un punto di vista immunitario, che sono poi quelle che consentono il legame del virus al recettore ACE2). I cosiddetti anticorpi neutralizzanti del virus, che sono quelli che impediscono il legame del virus con il suo recettore e la grande omologia (superiore al 90%) riscontrata in queste regioni, tra coronavirus umano e quelli del cane e del bovino, ci dà la speranza che la nostra ipotesi abbia un fondamento reale. Oltre alla proteina spike, abbiamo anche cominciato a lavorare ad un innovativo approccio diagnostico coinvolgente un’altra proteina del SARS CoV-2”.
In conclusione dunque, non è agli animali che va imputata la ‘responsabilità’ dell’attuale pandemia di COVID-19, quanto piuttosto all’uomo sta invadendo ambiti (l’esempio tipico è il celebre mercato di Wuhan), che non dovrebbe invadere. “Questo – afferma il professor Sanguinetti - aumenta la possibilità di venire in contatto con animali totalmente ignoti al nostro sistema immunitario. E purtroppo in futuro succederà ancora. Solo nel XXI secolo, quello attuale è il terzo episodio di passaggio di un coronavirus dagli animali all’uomo (SARS, MERS, SARS Cov-2). E questo ci riporta all’importanza di affrontare il problema in modo diverso e globale (approccio ‘OneHealth’). Ma sottolinea anche come l’uomo dovrebbe tornare a rispettare la natura e non invadere determinati ambiti”.