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Contribuito di libertà, in 4 anni lo hanno ricevuto solo 229 donne

La denuncia di ActionAid: a fronte di migliaia di donne che iniziano in percorso di uscita dalla violenza, soltanto una minima parte riceve il sostegno economico regionale

Negli ultimi 4 anni nel Lazio soltanto 229 donne che hanno intrapreso un percorso di uscita dalla violenza hanno ricevuto il cosiddetto “contributo di libertà”, una misura di sostegno al reddito che la Regione ha istituito nel 2018 per aiutare le  donne che si sono rivolte a un centro antiviolenza ad allontanarsi dalla casa familiare in cui le violenze quasi sempre avvengono, a trovare una nuova sistemazione e ad avere un reddito certo e un lavoro dignitoso.

I dati arrivano dal report “Diritti in bilico” di ActionAid, un’analisi delle politiche e delle risorse nazionali e regionali a sostegno delle donne condotta attraverso interviste, focus group e workshop che hanno coinvolto circa 100 rappresentanti di strutture di accoglienza, servizi territoriali ed enti pubblici per donne in fuoriuscita dalla violenza. Il contributo di libertà è un importo massimo di 5.000 euro erogato una tantum pro capite per donne prese in carico da strutture antiviolenza, ed è finalizzato a coprire le spese abitative (affitto, elettrodomestici, bollette), le spese per la donna (farmaci, formazione, alimentari) e le spese per minori (materiale didattico, trasporti, attività sportive).

Le spese devono essere rendicontate dal centro antiviolenza tramite il quale la donna ha fatto richiesta alla Regione, e dal 2018 a ottobre 2022 sono stati stanziati dalla Regione Lazio 1,4 milioni di euro, che hanno permesso a 229 donne di accedere alla misura. Risorse che, sottolineano da ActionAid, non riescono quindi a coprire il fabbisogno reale, visto che le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza sono molte di più.

Nel 2020 oltre 2.200 denunce di violenza ai danni di donne nel Lazio

Il quadro emerge dai dati ufficiali del 2020 relativi alle denunce di violenza a danno di donne nel Lazio (2.223) e da quelli forniti da Donne in Rete contro la violenza (Di.Re), secondo cui nello stesso anno tra le donne accolte dalle strutture una su tre era a reddito zero (32,9%) e meno del 40% contava su un reddito sicuro. Per il periodo 2015-2022, le istituzioni hanno stanziato circa 157 milioni, ovvero 54 euro circa al mese per ogni donna non autonoma economicamente per fornirle un supporto al reddito, promuoverne il re/inserimento lavorativo, garantire una casa sicura e sostenibile nel lungo periodo: “Fondi scarsi che dovrebbero sostenere le donne, che spesso non riescono a produrre una dichiarazione Isee separata da quella del maltrattante e accedere a misure contro la povertà (reddito di cittadinanza, reddito di dignità) o di supporto alle famiglie in difficoltà (es. bonus affitto, bollette)”, fanno notare da ActionAid.

Allarme casa e lavoro: "I fondi sono insufficienti per garantire l'uscita dalla violenza"

“Per vivere una vita libere dalla violenza le donne hanno bisogno di un reddito sufficiente una casa sicura, un lavoro dignitoso e servizi pubblici funzionanti: diritti fondamentali che le istituzioni italiane non sono in grado di garantire a tutte e in tutti i territori. Il rischio è di far tornare le donne, spesso con figlie e figli, dagli autori di violenza, vanificando il loro percorso verso l'autonomia - sottolinea Isabella Orfano, esperta dei diritti delle donne di ActionAid - Quanto tempo ancora le migliaia e migliaia di donne che hanno subito violenza dovranno aspettare prima di poter beneficiare di politiche e servizi strutturali che rispondano alle loro esigenze? Al Governo chiediamo per l’ennesima volta di adottare politiche integrate e strutturali coinvolgendo tutti i Ministeri e gli uffici competenti”.

Stando ai dati elaborati da ActionAid, ogni anno sono circa 50mila le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza. Nel 2020, le donne assistite dai centri senza lavoro o risorse per rendersi autonome erano il 60,5%, quota che sale al 70% tra le giovani dai 18 a 29 anni, le più precarie. Nel maggio del 2020, proprio per fornire un ulteriore sostegno, il governo aveva istituto il “Reddito di libertà”, un contribuito di 400 euro al mese per massimo 12 mesi finanziato con 12 milioni di euro per il periodo 2020-2022: nel primo anno solo 600 donne ne hanno beneficiato a fronte delle 3.283 richieste presentate (dati Inps). Con questi fondi si calcola che solo 2.500 donne potranno avere accesso alla misura. Tuttavia, sarebbero circa 21 mila all’anno le donne che ne avrebbero necessità, secondo i dati Istat: “Finiti questi soldi si è comunque ripresentato il problema perché non la donna non ha potuto più pagare l'affitto ed è dovuta tornare sui suoi passi - è il racconto di un’operatrice di un centro antiviolenza - Con 6 o 12 mesi di borsa lavoro a 500 euro. Che tipo di svolta vuoi dare a queste donne?”. 

A oggi a livello nazionale non esiste nessuna norma riguardante il reinserimento lavorativo che prenda in considerazione le specifiche esigenze delle donne in fuoriuscita dalla violenza, cioè i carichi di cura familiari, la precarietà economica, le difficoltà di spostamento o la mancanza di accesso a servizi come asili e nidi. Le misure sono pensate e finanziate da ciascuna Regione in modo diverso attraverso percorsi di formazione professionale, tirocini, borse lavoro, attività di avvio all’autoimprenditorialità. Un quadro che amplifica lo squilibrio territoriale italiano e le diseguaglianze di accesso alle opportunità per le donne, il divario tra grandi città e i piccoli centri. 

Per la partecipazione delle donne che hanno subito violenza al mercato del lavoro, le istituzioni nazionali e regionali hanno stanziato circa 124 milioni di euro dal 2015 a oggi: il 72% (89,2 milioni) per interventi di mantenimento dell’occupazione e il restante 28% (34,8) per quelli di re/inserimento lavorativo, sebbene il numero di donne disoccupate accolte dalle strutture antiviolenza nel 2020 sia del 50%. Nel 2015, per il mantenimento dell’occupazione, è stato attivato il congedo indennizzato per vittime di violenza, per cui sono stanziati in media circa 12 milioni annui. Dalla sua introduzione ad oggi, è stato registrato un aumento delle domande presentate del 2.662% (da 50 nel 2016 a 1.331 nel 2021), a cui non è seguita una crescita delle domande accolte. Nel 2021, infatti, solo il 32% delle domande presentate è stato accettato (432 a fronte delle 1.331).  

Un’altra criticità è rappresentata dalla casa: “Spesso i tempi si allungano non perché le donne non siano pronte a uscire dal centro, ma perché non sono in grado di accumulare risorse che gli consentano di pagare una caparra o un trasloco”, sottolinea ancora l’operatrice . Le donne che hanno subito violenza hanno una probabilità quattro volte superiore rispetto alle donne in generale di vivere situazioni di disagio abitativo. Chi deve ricostruire la propria vita spesso ha difficoltà nel pagamento dell’affitto o della rata del mutuo, è costretta a traslochi frequenti, subisce sfratti o si trova a dover vivere in alloggi sovraffollati, insieme ai figli”.

Per promuovere l’autonomia abitativa delle donne in fuoriuscita dalla violenza, le istituzioni nazionali e regionali hanno stanziato per il periodo 2015-2022 12 milioni di euro, di cui 9,3 milioni da risorse nazionali e 1,8 da quelle regionali. Le risorse sono state spese principalmente per erogare contributi economici alle donne per la copertura di caparre, canoni d’affitto e pagamento di utenze: “Si tratta di interventi insufficienti per risorse e tempi di erogazione - chiariscono da ActionAid - che non tengono conto della necessità di offrire strumenti per il raggiungimento di un’indipendenza abitativa sostenibile e di lungo periodo”.

Oltre all’aumento dei fondi, proseguono dall’associazione, è necessario poi “un maggiore coordinamento tra il livello regionale e quello statale per garantire a tutte le donne le stesse possibilità di accesso. Secondo la normativa regionale, infatti, le donne che hanno usufruito del Reddito di libertà (RdL) statale non possono richiedere il Contributo di libertà della Regione Lazio, cosa che non avviene all’inverso. Una incongruenza normativa rischia di creare discriminazioni a danno delle donne potenziali beneficiarie”.  

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