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Domenica, 28 Maggio 2023
Attualità

L'arte disubbidiente nello spazio urbano: Giorgio de Finis e i buoni e i cattivi dell’arte di strada

Intervista al direttore del Museo delle Periferie di Tor Bella Monaca, pochi giorni dall'inaugurazione della nuova opera di Sten & Lex

In un periodo in cui abbiamo imparato a vedere le città svuotate dalle restrizioni dovute alla pandemia, l'arte urbana non smette di porre interrogativi. Mentre la sindaca Virginia Raggi annuncia soddisfatta la 'cattura' del writer Geco, molte altre opere continuano invece a essere commissionate dalle amministrazioni pubbliche. Romatoday ne ha parlato con Giorgio de Finis, direttore del Museo delle periferie di Tor Bella Monaca curatore del libro Non autorizzati. L'arte disubbidiente nello spazio urbano (ed Castelvecchi). Proprio a Tor Bella Monaca, dopo la nuova opera di Sten & Lex, inaugurata pochi giorni fa, stanno per essere realizzati nuovi interventi.

Per la nuova arena all’aperto del teatro Tor Bella Monaca il Museo delle periferie ha realizzato un’opera di Sten & Lex, che fungerà anche da fondale naturale per le performance che saranno ospitate sul palco. Ne sono annunciate altre tre, ci puoi anticipare qualcosa? Sia sui nomi sia su cosa rappresenteranno per il quartiere. 

Credo sia importante che un artista tenga conto del contesto in cui colloca un proprio intervento d’arte pubblica, che si rapporti con quello che gli addetti ai lavori chiamano “site specific”. Che non va confuso però con l’illustrazione della storia - o delle cronache - del quartiere. Si critica spesso l’opera che arriva calata dal cielo, senza legami con il territorio, ma il rischio opposto è quello di proporre una narrazione per immagini didascalica e “identitaria” che talvolta mi pare più funzionale all’azione di una pro-loco.
In effetti quello di Sten & Lex è il primo di una serie di interventi di arte urbana che il RIF porterà a Tor Bella Monaca; a breve dovrebbero partire i cantieri dei tre grandi muri a completamento del progetto, avviato anni fa e poi interrotto, al comparto R8. Gli artisti che ho selezionato, in collaborazione con Daniela Lancioni curatrice senior di Palazzo delle Esposizioni, sono Andreco, Greg Jager e Ria Lussi. Tutte e tre le opere proposte contengono una riflessione sulla periferia, ma vogliono anche essere un invito a resistere, a trovare la strada di un riscatto che non solo è ritenuto possibile, ma addirittura, come nell’opera di Andreco, fuoriesce come una esplosione di vitalità ed energia dalle viscere della terra. Nel testo di presentazione del bozzetto per il RIF, Andreco scrive: “Ho immaginato un vulcano che erutta possibilità, pratiche, idee, che quando ricadono sul territorio generano cambiamento, euforia, possibilità. Spero che i giovani di Tor Bella Monaca crescano con un vulcano di idee dentro, per cambiare il proprio futuro e, con determinazione e forza di volontà, per migliorare le loro sorti, quelle del quartiere e dell’intera città”. Mi auguro che questo messaggio di fiducia venga apprezzato; presto avremo l’occasione di presentare gli artisti e le loro proposte agli abitanti del VI Municipio. 

Dopo diverso tempo in cui la street art sembrava diventata soprattutto un'arte su committenza delle amministrazioni pubbliche, la denuncia di Virginia Raggi contro Geco ha riacceso il dibattito sull'arte urbana. Medicina valida per riqualificare i quartieri e allo stesso tempo gesto criminale: ci sono tante 'street art' o sono solo diversi gli usi strumentali che se ne fanno?

Gli artisti sono diversi, per stile, poetica, pratica; ognuno decide con che regole del gioco giocare in città. A volte giocando anche su più tavoli, se così si può dire (mi riferisco, ad esempio, all’opzione tra arte autorizzata e arte non autorizzata). Altrettanto vari sono gli obiettivi della “committenza”.
È indubbio che se si volesse fare una storia puntuale di quel “museo a cielo aperto” che è rappresentato dalla somma degli interventi di street art a Roma, si dovrebbero studiare più i committenti forse che gli artisti, che non sono solo le amministrazioni, che a volte è vero sono tentate dalla via breve di una riqualificazione a basso costo per il tramite di una mano di vernice colorata. Committenti sono anche i centri sociali, le occupazioni abitative, le associazioni di quartiere, le squadre di calcio, gli enti pubblici e privati (gallerie comprese)… perfino i palazzinari che ormai immaginano di immettere sul mercato nuove costruzioni già dotate di una facciata dipinta. 
Se la street art è sdoganata e corteggiata, fino a correre il rischio di rimanere bloccata in un gigantismo da era giurassica, il writing continua ad essere associato al vandalismo. Abbiamo scritto con un variegato gruppo di autori proveniente da pratiche e discipline diverse un libro (un vero instant-book per i tipi Castelvecchi) a partire dal “caso Geco”, definito noto imbrattatore seriale e messo alla gogna, per riflettere sulla sua pratica artistica, ma anche per chiederci se l’arte debba, e possa, essere addomesticata e rinchiusa nei recinti deputati (si tratti di musei o muri legali). Per dirla con l’amico Paolo Buggiani, l’arte è disubbidiente o non è!

Il discorso sulla street art scivola spesso su quello del decoro. In modo semplicistico: muro bianco / muro sporco. E il decoro si porta dietro un’altra questione: chi sporca la città? Cosa deve stare fuori e cosa dentro? La street art ci porta a parlare di città. In che modo?

Esatto! È proprio questo il punto su cui invito a ragionare nel libro. Da una parte mi chiedo chi sia autorizzato (questa volta rovescio la domanda) a decidere cosa sia arte e cosa no; dall’altra se la città sia ancora un luogo capace di accogliere forme (artistiche, ma anche di dissenso politico) non previste, dunque in grado di sorprenderci, in nome della loro “ultra-contemporaneità” (rubo l’espressione a Daniele Vazquez, autore di un bel saggio critico che per il Geco artista rispolvera la nozione di “sublime colossale”). 
La questione del decoro non riguarda solo il writing, ma spesso sono le persone ad essere “indecorose” e questo è inaccettabile. I rom, i senza fissa dimora… ma anche tutti gli altri umani-urbani, se pensiamo che sulla scalinata di Trinità dei Monti è vietato sedersi. Viviamo una contraddizione schizofrenogena, da una parte l’urbano è divenuto l’habitat privilegiato dai sapiens del Terzo Millennio (che dal 23 maggio 2007 vi abitano per il 50% +1), dunque un ecosistema da tutelare come un bene comune, al pari di acqua e aria, dall’altra essa vale al metroquadro, viene attaccata e usata al pari di una risorsa da estrarre e mettere al servizio della rendita finanziaria… ignorando che continua ad essere abitata. La città vuota che la pandemia ci ha mostrato è anche una prefigurazione della città che si è liberata finalmente dei suoi (fastidiosi) abitanti. 

Nel testo citi il caso dello stencil graffito realizzato su un muro di Palazzo delle Esposizioni durante la vernice della Quadriennale, una incursione alla Banksy che è stata cancellata (dal muro e dalle notizie stampa) prima ancora di capire se fosse effettivamente una opera dell’artista celebrato in quegli stessi giorni al chiosco del Bramante. Un cortocircuito?

La sindaca Raggi, come pure la direzione di Quadriennale e Palaexpo hanno scelto di cancellare, una questione “amletica” che l’amministratore di turno deve affrontare quando si trova davanti a un’opera di Banksy, come ci ricorda l’artista stesso; ma lo stesso vale anche davanti a una tag di Geco, dico io, perché non possiamo escludere che a breve (magari anche grazie alla notorietà mediatica che gli ha regalato la sindaca Raggi) questa possa essere considerata di pari valore. Ricordo che Carraro e Rutelli fecero cancellare dall’ufficio preposto al decoro urbano i due muri che Keith Haring dipinse a Roma. Cosa che periodicamente viene loro rinfacciato.

Prendiamo il caso opposto: Blu a Bologna ha cancellato le sue opere per evitare di finire in un museo. Possiamo dire che il messaggio della street art va ben al di là della sua raffigurazione?

Blu è scappato in maniera esemplare alla “cattura”, ad un’appropriazione indebita, predatoria che pretendeva di strappare le opere dallo spazio pubblico per rinchiuderle in uno spazio privato visitabile a pagamento… Una reazione che ha aggiunto punti alla sua celebrità e alla sua immagine di artista “puro” (un tratto che con orgoglio rivendicano spesso anche i writers).

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