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Boxe, dalla Montagnola a Las Vegas con un sogno nel cassetto: “Combattere all’Olimpico”

Guido Vianello con l’incontro del 9 giugno all’MGM di Las Vegas è stato il primo atleta italiano a riprendere l’attività in una competizione ufficiale. Vianello: "Mi sono allenato anche durante la quarantena"

E’ passato al professionismo alla fine del 2018 ed in un anno mezzo ha collezionato 7 vittorie. Tutte per KO. L’ultimo incontro si è disputato al Grand MGM di Las Vegas, lo scorso 9 giugno. E con l’occasione Guido Vianello, numero uno dei pesi massimi italiani, ha segnato un record: è stato il primo sportivo del nostro Paese a gareggiare in una competizione ufficiale.

Vianello, il suo avversario era un po’ appesantito lei invece si è presentato in perfetto peso forma. Come ha fatto, si è riuscito ad allenare durante la quarantena?

Sì, io vivo in Nevada a Las Vegas. Qui ci sono stati pochissimi casi di nuovo Coronavirus ed una volta che hanno chiuso la "Strip", la strada principale, i visitatori hanno smesso di venire. Non c’era in giro nessuno e quindi è stato facile anche fare un po’ di corsa. 

Come ha vissuto la fase 1 del nuovo Coronavirus?

All’inizio negli USA  si aveva la percezione che fosse un problema dell’Italia e della Cina. Io però ero aggiornato su quanto stesse succedendo nel nostro Paese ed immaginavo che il Covid avrebbe avuto presto conseguenze anche in America. Ed infatti una settimana prima dell’incontro che dovevo disputare il 28 marzo è arrivata la decisione di annullarlo.

L’ha combattuto due mesi e mezzo più tardi. Però diceva che è riuscito ad allenarsi.

Sì, io ero già pronto per il combattimento di marzo. Durante il mese e mezzo di quarantena sono riuscito ad allenarmi 3 volte a settimana grazie al fatto che, il mio allenatore, ha una palestra privata. Facevo sedute di due ore l’una, poi un po’ di boxe, qualche corsetta al fiume ed al lago. Ho approfittato di quella fase per caricarmi e farmi trovare pronto. Dai primi di maggio poi, finita la quarantena, ho avuto anche la possibilità di fare sparring con un altro peso massimo.

E così si è fatto trovare pronto per il suo settimo incontro. Finito dopo pochi minuti del primo round. Sta diventando un’abitudine. Ma lei sente di essere migliorato rispetto alla sua esperienza sportiva in Italia?

Beh sì, me ne rendo conto anche durante gli allenamenti. Io provengo dal gruppo sportivo dei Carabinieri e come atleta azzurro avevo tutto. Quando sono arrivato qua, sono stato catapultato su una montagna ed ho dovuto ripartire da zero. A duemila metri di altitudine con la sveglia alle cinque ed il meastro Sanchez, a cui sono molto grato, che mi ha seguito per i primi sei incontri, sono stato sottoposto ad allenamenti molto duri. Ricordo che all’inizio mi si infiammavano i gomiti a forza di provare colpi e avvitamenti.

Lei è stato olimpionico azzurro ed ora è nella scuderia della Top Rank di Bob Arum, probabilmente il numero uno dei promoter pugilistici. Che differenze sta trovando con l’Italia?

C’è molta differenza sul piano sia tecnico che organizzativo. Sul piano tecnico, ad esempio, spesso in Italia tiriamo i colpi per prendere il punto, colpendo con l’interno della mano. Qui ho passato molto tempo a lavorare anche su questo aspetto, per portare i pugni con le nocche. Sul piano organizzativo invece ho riscontrato una distanza notevole. Poi stando a Las Vegas, che è il centro del mondo della boxe, si ha la possibilità di osservare da vicino i campioni. Io ogni fine settimana vado ad assistera ad un mondiale. Quello che in Italia vedi in TV, qua lo puoi apprezzare dal vivo. 

Ha fatto anche sparring con campioni come Joseph Parker e Tyson Fury, attuale detentore della prestigiosa cintura WBC...

Si, dopo un mese che ero arrivato, ho avuto la possibilità di allenarmi con Tysone Fury. Ho anche partecipato ad un paio di riunioni pugilistiche in cui c’era lui nel mean event. Prima le dicevo che qui c’è la possibilità di conoscere, vedere e confrontarsi con i campioni. Anche andare ad assistere agli incontri nel fine settimana fa la differenza. Perché mentalmente ti abitui a quel clima. E non è una cosa di poco conto.

Ma lei che obiettivi si è prefissato andando in USA?

Io voglio restare con i piedi per terra, affrontando un avversario dopo l’altro. Tra l’altro vorrei far notare a chi li critica, che sono tutti stati dei pugili con record positivi. L’ultimo aveva sedici vittorie e sole tre sconfitte. Quindi il mio obiettivo è di continuare nella costruzione del mio percorso. Ogni volta salendo di un gradino. Ho il promoter migliore al mondo, un contratto lungo, e non devo sbagliare.

Lei sembra sempre molto misurato. Anche ora mi ha risposto in maniera razionale. Però un sogno nel cassetto ce l’avrà. Qual è il suo?

Mi piacerebbe combattere allo stadio Olimpico. Una volta il pugilato, quello in bianco e nero, era uno sport popolare che riempiva gli stadi. Io vorrei che quella prospettiva tornasse attuale. Vorrei renderla a colori. E credo non sia impossibile. 

Però siamo molto lontani da questo proposito. Il pugileto fatica, in Italia, a mettere insieme poche migliaia di spettatori.

Io guardo a quanto accade in Gran Bretagna, dove Joshua riempie Wimbledon. Quest’attenzione del pubblico inglese alla boxe, a questi livelli, è un fenomeno recente. E ci possiamo arrivare anche noi italiani.

Facciamo un passo indietro. Lei ha citato l’Olimpico perché è romano. Ed anche se ora vive a Las Vegas ha incominciato qui. Tra l’altro è curioso che un ragazzo, che ha il papà titolare di un circolo tennistico, si dedichi al pugilato.

Io dovevo fare il tennista. I miei genitori mi hanno messo una racchetta in mano quando avevo appena tre anni ma come spesso accade in questi casi, forse vivendolo come una costrizione, ho detestato quello sport. Ora invece che lo pratico, quando torno a Roma, con i soci del circolo, ci gioco volentieri e mi diverte. E finisce che spesso subisco delle sonore sconfitte.

Sì, ma com' è arrivato al pugilato?

Ogni giorno, andando a casa, passavo in scooter per via Pico della Mirandola alla Montagnola. Lì, sopra un capannone, leggevo la scritta ‘Team Boxe’. Un giorno mi sono fatto coraggio e sono entrato. Ho trovato gente che si allenava a petto nudo, che gridava quando tirava i colpi. Un odore fortissimo di sudore e di cuoio. Era un ambiente totalmente diverso da quello elegante ed un po’ formale del circolo sportivo. 

Quanti anni aveva?

Questo che le sto raccontando succedeva quasi dieci anni fa. Io avevo quindici anni ma ero già alto un metro e novantacique. Infatti ricordo che si avvicinò Italo Mattioli, che insieme a Luigi Ascani gestisce quella palestra, e m chiese quale fosse la mia età. Una volta saputa, vedendomi così alto,  rimase stupito. A quel punto mi ha domandato se fossi disposto, dal giorno successivo, ad allernami con loro. Ho risposto di sì e devo dire che da allora la mia vita è davvero cambiata. Ero un ragazzo timido. Da quel giorno sono rinato.
 

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