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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Mio figlio disabile messo alla porta: "Diciotto centri diurni mi hanno detto di no"

Sono strutture accreditate con la regione Lazio, ricevono finanziamenti pubblici, ma scelgono autonomamente chi accogliere. E i casi gravi, quelli che necessitano di un'assistenza 1 a 1, restano fuori

"Matteo è stato rifiutato da 18 centri. Ci siamo sentiti dire di no per 18 volte, ha idea di che significa?". Maria, 63 anni, vedova, madre di un ragazzo di 34 affetto da autismo grave, scorre il plico di risposte arrivate dai centri diurni regionali che dovrebbero accogliere il figlio durante la giornata. 

"Necessita di un impegno assistenziale elevato che al momento non siamo in grado di fornire", oppure, "sono emerse problematiche comportamentali che rendono il nostro centro non idoneo a garantire sicurezza e gestione dell'utente" e ancora "allo stato attuale non è possibile aprire nuovi progetti riabilitativi". Sono centri che la stessa Asl Roma C ha contattato dopo aver analizzato il caso, quelli messi a disposizione dal sistema sanitario per l'assistenza diurna degli invalidi. 

Il problema è che non accettano di fatto disabili ad alto carico assistenziale, quelli che come Matteo hanno bisogno di un operatore che li segua con piani riabilitativi individuali. Il rapporto nei centri accreditati, regolamentati ai sensi dell’ex art.26 L.833/78, è almeno di un operatore ogni sette utenti, nei casi migliori.  

Convenzionati con la regione Lazio, tra i criteri previsti dalla legge per aggiudicarsi la prestazione riabilitativa, non c'è l'assistenza 1 a 1. Le Asl valutano il grado di disabilità, ma sono i gestori a scegliere chi entra e chi no, sulla base di una gestione totalmente autonoma dei finanziamenti (190 milioni di euro per 90 centri, 72 a Roma, nel 2014). E la preferenza va ai cosiddetti casi “medio lievi”,  quelli più autonomi che permettono un rapporto inferiore tra assistenti e assistiti. Così Matteo, e tanti come lui, se non fosse per il privato, rimarrebbe a casa. 

"Sono stata costretta a rivolgermi a una struttura privata, di un'amica, ci sono i cavalli, un po' di verde, lì Matteo sta bene. Io non posso più tenerlo tutto il giorno, sono in pensione ma mio marito è morto nove anni fa, poi mio figlio può avere anche comportamenti aggressivi, e quindi ho per forza bisogno di un progetto strutturato che prenda buona parte della giornata". Il centro le costa 80 euro al giorno, una cifra non dissimili a quello pagata dalle Asl per i centri pubblici convenzionati, circa 100 euro in media. Che la stessa azienda sanitaria locale ha sborsato in altri casi per finanziare progetti privati trovati dai genitori in assenza di posti pubblici, ma non per il figlio di Maria. 

"Ho messo tutti questi fogli che vedi nelle mani di un giudice. Io so che in altri casi uguali al mio, nelle Asl Roma A e Roma B sono stati pagati centri privati a chi era stato rifiutato. A me hanno detto di no, giustificandosi, che in questo le azienda sanitarie hanno una loro autonomia decisionale. E quindi se uno nasce all'Eur è più sfortunato, così senza una ragione. Io il centro lo posso pagare, ma sono rimasta senza soldi, e non so quanto riuscirò ad andare avanti". Una sistema fatto di deroghe ad personam, testimoniato da genitori che come Maria si stanno battendo perché chi di dovere metta mano a una rete socio assistenziale fallimentare, che non è regolamentata in alcun modo. 

La soluzione offerta dalla Asl alla donna? Mandare il figlio in una Rsa (Residenza Sanitaria Assistenziale), centri di accoglienza tipo case di riposo dove il 70% degli utenti è anziana e arriva da lungodegenze mediche. 

"Non porterò mai mio figlio in un posto così, lì sono tutti insieme, malati psichiatrici, anziani, carrozzati, e non c'è un'assistenza individuale. Posso dire che voglio per mio figlio una soluzione migliore, posso usare la parola 'voglio'? Ecco, voglio che mi foglio faccia ancora una vita decente. In una casa di riposo dove non sanno neanche cosa sia un autistico, non ce lo mando". 

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