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Sanremo 2019, parla il rapper Rancore: "Che ispirazione i cortili del Tufello! La periferia? Per me una spinta"

Intervista al rapper rivelazione di Sanremo 2019: dal Tufello al palco dell'Ariston, Tarek Iurcich a cuore aperto

Dal Tufello al palco dell'Ariston. Tarek Iurcich, in arte Rancore, si è guadagnato l'attenzione della critica, affiancando Daniele Silvestri nel pluripremiato brano Argentovivo, uno dei pezzi più significativi e potenti della kermese targata Claudio Baglioni. La canzone, segnata da forte impatto emotivo, riesce, attraverso una costruzione quasi cinematografica, a dare voce ad un adolescente di oggi, esplorandone le disperazioni più profonde e meno comprese. 

Sulla scena da quattordici anni, Rancore arriva a Sanremo, sulla scia dell'apertura di Baglioni alla nuova musica indipendente italiana. "Sono felice di aver avuto la possibilità di portare le mie parole sul palco - spiega a Today lui, con quattro album all'attivo (l'ultimo è Musica per bambini, di cui il nuovo singolo estratto è Giocattoli) e un tour in corso  - Daniele, poi, è uno di quelli artisti che ho sempre considerato tra i miei maestri". 

Rancore, quali sono le sensazioni lasciate dalla settimana sanremese?

Sono contento e non potrebbe essere diversamente. Ciò che mi rende soddisfatto è, soprattutto, aver avuto la possibilità di interpretare all'Ariston i miei testi, senza che questi dovessere cedere ad un compromesso. Ne sono felice, perché sono andato a parlare ad un pubblico ampio e diversificato. Ho scoperto che, da parte degli spettatori, c'è un grande interesse verso messaggi di questo tipo, seppure complessi, e che le persone hanno compreso l'intenzione positiva della scelta mia e di Daniele. 

Argentovivo è un brano che indaga il disagio adolescenziale, il muro dell'"incomunicabilità". A chi parla, ai genitori o ai figli?

Ad entrambi. Motivo per il quale Daniele ha deciso di chiamare anche un altro punto di vista, ovvero il mio. Ognuno sta nel pezzo per una ragione diversa, perché porta il proprio bagaglio. Daniele è un padre, io sono ancora un figlio. Grazie a questa visione a 360 gradi abbiamo provato ad immergerci nella testa di un sedicenne. Noi ci rivolgiamo a tutti, poniamo domande a tutti. Certo, il ragazzo a cui parliamo sa già come si sente, ma magari, proprio grazie alla canzone, si renderà conto che c'è qualcuno che si prende la responsabilità di spiegare che cosa sta accadendo nella testa di tante persone che ha intorno e che non sempre sono giovani. La crisi di valori, infatti, riguarda tutti, anche a livello tecnologico, se vogliamo. 

Il testo affronta anche il tema della dispersione degli adolescenti sui social, della cosiddetta generazione "look down", ovvero che guarda sempre uno schermo. Tu, che hai un pubblico composto anche da giovanissimi, come pensi si possa favorire il confronto generazionale?

Attraverso una creatività diversa e condivisa, perché ad oggi è come se avessimo canalizzato tutta la nostra creatività verso lo stesso oggetto. Ci sono applicazioni per fare qualsiasi cosa. Prima, invece, la creatività coinvolgeva mille cose. Io, ad esempio, a sedici anni ho composto un disco. Oggi è tutto talmente veloce, semplice e confuso, che la fantasia è stata inquinata ed indirizzata verso lo stesso luogo. Padri e figli potrebbero trovare nella creatività un punto di incontro. E' un po' quello che accade con lo sport, con una partita di calcetto.  

Daniele Silvestri ha detto di apprezzare il tuo modo di scrivere "più meticoloso, costruito ed ermetico del mio". Come vi siete incontrati?

L'ho sempre considerato un maestro delle parole. E' un cantautore che seguo musicalmente sin da quando sono piccolo, soprattutto per la sua capacità di giocare con i testi. Anni fa avevo anche pensato di contattarlo, poi non l'ho fatto: non me la sono sentita, aspettavo un'occasione che fosse "più giusta". 

Ed è arrivata. 

Non c'ho creduto fino a quanto non sono andato in studio per sentire il pezzo. Dopo il nostro primo incontro, non ci siamo più sentiti per dieci giorni: mi sono chiuso a scrivere e sono scomparso. Poi, quando mi ha richiamato, gli ho detto che avevo scritto un chilometro di parole. Ci siamo visti ed è stato lì che mi ha detto: "Questa cosa la porteremo all'Ariston". Mi sembrava tutto assurdo e particolare. Poi abbiamo cominciato a ragionare concretamente e abbiamo scritto la canzone, in tempi anche piuttosto brevi. 

Definisci il tuo stile "rap ermetico". Che cosa intendi?

"Ermetico" è una parola complessa. Così complessa che io stesso c'ho messo tanto prima di trovarla. E' stato difficile afferrare la parola giusta che descrivesse il mio modo di scrivere. Per "ermetico" intendo una scrittura che ha vari livelli di interpretazione, un testo in cui le frasi sono incastrate in una maniera tale che l'una sembra richiamare l'altra. 

Il tuo ultimo singolo Giocattoli ne è un esempio. 

Ad un primo ascolto, sembra che io mi stia rivolgendo ad una ragazza. Solo successivamente si capisce che, invece, a parlare sono alcuni oggetti. Nella prima strofa è un giocattolo, in riferimento al momento dell'infanzia, nella seconda un rossetto, perché la bambina è cresciuta ed inizia a giocare con l'estetica, infine, nella terza strofa, una sigaretta, perché dai rossetti è passata a giocare con una sorta di autodistruzione. In Musica per bambini si raccontano e si analizzano i molteplici aspetti della non comunicazione e del disagio, condizione che nasce dall’estraniarsi dalla realtà nel momento in cui non solo non si è compresi, ma non si comprendono più gli altri. Il filo rosso di questo album è proprio il tema della crescita.

Cominci il tuo percorso musicale da adolescente, a Roma, ed oggi sei uno degli artisti più rappresentativi e fuori dagli schemi della scena romana. Quest'anno, Roma è molto presente al Festival. Ultimo arriva dal quartiere di San Basilio, Achille Lauro dalla zona Bufalotta, tu dal Tufello. La periferia è fonte di ispirazione?

Arrivare da un contesto sociale di periferia per me è una spinta, perché nelle periferie c'è silenzio: c'è meno caos, ci sono meno persone ed automobili, a volte si ha la sensazione di stare in un paese, o almeno al Tufello è così. Entrare in un cortile del Tufello significa entrare in un labirinto verde, dove tra i vasi di fiori ci si sente in una dimensione parallela. E' qualcosa che dico spesso nelle canzoni. Spesso parlo proprio del "cortile", perché è la rappresentazione del gioco da bambino, ma è anche il posto in cui passeggi da grande, forse anche da vecchio. E' semplicemente un cortile, eppure sembra che quei muri ti ascoltino, ti guardino e sembrano sapere tutto quello che è successo, sia nella tua vita che in quella del quartiere. Respirare quell'atmosfera è di ispirazione ogniqualvolta vado a fare due passi. 

Romano, con origini croate ed egiziane. In questo Festival si è parlato molto di integrazione, è un tema al centro di più di una canzone, da Motta ai The Zen Circus. Ti sei mai confrontato con la discriminazione?

La discriminazione può avere diverse facce, ma tutto dipende dal modo in cui una persona la affronta. Mi viene in mente una partita di calcetto tra bambini. Un bambino può essere preso in giro per le sue origini straniere, un altro perché non sa giocare a calcio. Ecco, io parlerei in generale di superficialità. Per quanto mi riguarda, non ho mai subito discriminazione per le mie origini: sono nato a Roma, sono italiano. Al massimo sono stato preso in giro perché non ero il più "figo" di tutti, ma è normale e, forse, è stato giusto così. Questo mi ha permesso di andare a prendermi il rispetto degli altri. Soprattutto attraverso il rap.

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