Basilica di Santa Prassede all’Esquilino
Parallela a via Merulana, corre, prossima a Santa Maria Maggiore, via di Santa Prassede. Sulla destra, un muro e una porta poco appariscente introducono nella chiesa di Santa Prassede; è un ingresso laterale, che introduce nella navata destra di un luogo di indicibile bellezza.
Questa straordinaria testimonianza dell’ecclesia romana dell’alto medioevo si annuncia con un protiro a due colonne e timpano nella stretta e buia via di San Martino ai Monti, che è una parte dell’antica via Suburra (vicina è l’alta casa – ogni secolo l’aggiunta di un piano – dove visse il secentesco pittore bolognese Domenico Zampieri, detto Domenichino).
Pur rimaneggiata, la chiesa conserva il suo splendore di linee e colori: mosaici del secolo IX, pitture del XVI, cassettoni policromi del soffitto, bellissimo pavimento rifatto alla maniera dei Cosmati.
Si entra da un ingresso laterale, ma conviene portarsi subito al fondo della chiesa dove si apre un quadrato cortile che fece parte della navata principale della basilica paleocristiana e che divenne atrio nel rifacimento generale dell’edificio curato da papa Pasquale I nel sec. IX. (Vi si trovano superstiti colonne e vi si apre uno scuro voltone che corrisponde all’ingresso principale).
La tradizione vuole che qui la martire Prassede raccogliesse le spoglie dei martiri caduti per la fede – una rota di porfido rosso presso l’ingresso che ricopre un pozzo antico –
anche se la sua casa dovette piuttosto trovarsi dove adesso sorge la chiesa intitolata alla sorella di lei, martire Pudenziana.
La chiesa, infatti, ha origini molto antiche. Attorno alla basilica di Santa Maria Maggiore sorsero molte chiese, tra cui, come attesta una lapide del 491, un titulus Praxedis, vale a dire un riferimento alle vicende della famiglia del senatore Pudente (I secolo d.C.), tra le prime persone convertire al cristianesimo dall’apostolo Paolo; con Pudente si convertirono anche le figlie Pudenziana e Prassede. Il senatore possedeva una villa i cui resti sono stati trovati sotto l’attuale basilica, nella quale, come s’è accennato sopra, nascondeva i cristiani perseguitati, secondo alcune fonti anche l’apostolo Pietro. Quando Pudente subì il martirio sotto Nerone, Prassede e Pudenziana, con il consenso di Papa Pio I fecero costruire nel 142/145 un battistero per i nuovi cristiani. Anche Prassede e Pudenziana subirono il martirio durante le persecuzioni di Antonino Pio. Alla morte di Pudenziana, Prassede utilizzò il patrimonio della sua famiglia per costruire una chiesa sub titulo Praxedis. Nascose molti cristiani perseguitati, quando questi,furono scoperti e martirizzati, raccolse i corpi per seppellirli nel cimitero di Piscilla sulla Via Salaria, dove anche lei trovò sepoltura insieme alla sorella e al padre. Si racconta che Prassede, raccoglieva con una spugna il sangue dei martiri per versarlo in un pozzo. Il Liber pontificalis ci informa che papa Adriano I verso il 780 rinnovò completamente ciò che restava del titulus Praxedis.
La chiesa attuale venne completamente ricostruita nell’822 da papa Pasquale I, in occasione della traslazione dei resti di duemila martiri dalle Catacombe, ormai definitivamente esposte alle impunite incursioni saracene nella Campagna romana.
Una scalinata portava all’atrio; qui si alzava la semplice facciata romanica quale ci appare oggi, salvo l’aggiunta dell’equilibrato portale collocato nel 1560 da san Carlo Borromeo, titolare della basilica.
L’interno conserva sostanzialmente la foggia della chiesa del secolo IX, con le tre navate basilicali divise da antiche colonne di granito che reggono un architrave di spoglio, con l’arcone trionfale e l’abside luccicante di mosaici. Coppie di pilastri intercalati alle colonne sorreggono tre grandi archi trasversali aggiunti per rinforzo nel secolo XII e irrobustiti nel XVI, mentre sulle pareti della navata mediana grandi pannelli manieristici dal festoso colore raccontano le storie della Passione.
Interessante è il pavimento in stile cosmatesco, realizzato nel corso di restauri condotti da Antonio Muñoz nel 1917. La fredda levigatezza del marmo segato a macchina e l’estrema precisione dei bordi delle pietruzze denunciano l’opera moderna, che è comunque di ottimo gusto per quanto attiene al disegno e alla scelta dei colori.
Nel Settecento, il cardinale Ludovico Pico della Mirandola fece trasformare e ampliare il presbiterio occupando lo spazio del transetto e portando avanti l’ingresso della “confessione”. Questa ha nel fondo un antico affresco della Madonna Regina fra le Sante Prassede e Pudenziana, ed un paliotto cosmatesco; un corridoio d’accesso è affiancato da quattro bellissimi sarcofagi strigilati (dotati di scalanature ondulate) e sovrapposti a coppie, contenenti reliquie di martiri (uno è dedicato alle spoglie delle due sorelle martiri). Una scritta racconta come qui Giovan Battista De Rossi, il padre dell’archeologia cristiana, avvertì l’ispirazione a dedicarsi al recupero dei cimiteri sotterranei.
Dai due lati della confessione si sale al livello del presbiterio mediante ampie scale con gradini in splendido marmo rosso antico, tanto apprezzato che, al tempo del Dipartimento del Tevere, si era progettato di asportarlo per utilizzarlo a Parigi nel trono di Napoleone. Tali marmi sono quanto avanza, dopo la vendita e la dispersione, avvenuta in occasione della sistemazione del Settecento, di altro rosso antico e di porfido rosso, due tipi di pietre che erano riservate alle costruzioni imperiali e che Pasquale I aveva accumulato negli ornati di questa chiesa.
Nel presbiterio si notano le due transenne laterali che reggono le cantorie, costruite da tre colonne ciascuna, il cui fusto è suddiviso in rocchi da corone d’acanto. Tutta la sistemazione del presbiterio è settecentesca, come lo è il mosso baldacchino di Carlo Fontana (1730) che riutilizzò le quattro colonne di porfido di quello originario.
Nell’abside, gli apostoli Pietro e Paolo presentano le due sorelle al Cristo dominante al centro, mentre Pasquale I offre il modellino della chiesa. L’intera composizione è ispirata da quella dell’abside dei SS. Cosma e Damiano.
In basso, con il motivo del fiume Giordano, c’è una teoria di pecorelle. Nell’arco absidale una serie di “seniori” dell’Apocalisse tendono all’Agnello mistico le loro corone di gloria. Nell’arco trionfale torme di eletti sullo sfondo dei cieli sono accolti dagli angeli nella Città celeste.
Tuttavia le più alte emozioni sono riservate dalla Cappella di San Zenone detta anche Giardino del Paradiso che Pasquale I eresse a metà della navata destra come mausoleo della madre Teodora: si tratta della della più significativa testimonianza della cultura artistica bizantina che sia rimasta a Roma, come documento della lunga fase di predominio politico e culturale dell’Oriente.
Introduce alla cappella un arco con decorazione musiva cui si sovrappongono due colonne di granito nero sorreggenti un meraviglioso architrave; su di esso poggia una grande e pregevole urna funeraria.
L’interno è degno del nome “Paradiso” che si dà alla cappella. Idealmente poggiando su quattro colonne collocate negli angoli del piccolo vano quadrato, quattro angeli in mosaico con le braccia alzate reggono al centro della volta tutta d’oro un tondo col volto di Cristo. Altri mosaici sono nelle lunette e sull’altare dove è collocata l’antica immagine di Santa Maria liberaci dalle pene dell’inferno. Molto interessante è il pavimento, coevo alla costruzione della cappella e quindi esempio di transizione tra l’antico opus sectile marmoreum e i lavori che i marmorari romani cominciarono ad eseguire nel secolo XI.
In una attigua piccola cappella, viene conservata la colonna detta della Flagellazione (un piccolo tronco di diaspro sanguigno che il cardinale Giovanni Colonna portò da Gerusalemme nel 1223). In un’altra cappella, pure vicina a quella di San Zenone, si trova una bella tomba quattrocentesca della scuola di Andrea Bregno; in un pilastro di fronte è il primo monumento funebre realizzato dal giovanissimo Gian Lorenzo Bernini.
prenotazioni: amici@romafelix.it