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Mercoledì, 17 Aprile 2024
Romaneggiando

Romaneggiando

A cura di Claudio Colaiacomo

Lo scalino di Regina Coeli

Un noto detto popolare dice che chi non ha salito il gradino del carcere di Regina Coeli non può considerarsi romano vero e «manco trasteverino». Quello scalino è ancora lì, dietro il grande portone al civico ventinove di via della Lungara a Trastevere sul marmo della pavimentazione d’ingresso. In realtà i detenuti quel gradino lo salgono raramente visto che l’ingresso più frequentato è quello di via San Francesco di Sales alle spalle della Lungara. 

Ad aumentare l’atmosfera cupa e austera del carcere è la sua posizione. Si trova sprofondato qualche metro sotto il lungotevere in un angolo scuro e vagamente malandato. È come se tutte le vie e i vicoli intorno scontassero una parte delle pene del migliaio di detenuti che qui sono reclusi.

La vocazione carceraria del complesso nasce a fine Ottocento quando termina la funzione di convento. In quegli anni già esisteva una piccola casa circondariale riservata alle donne. Il popolo la chiamava “le Mantellate” perché si trovava nella via omonima che un tempo ospitava il convento delle suore mantellate. Un noto canto popolare interpretato più volte sia da Gabriella Ferri sia da Ornella Vanoni recitava: «le mantellate so’ delle sore ma a Roma so’ soltanto celle scure...». La via è un breve tratto rettilineo che dalla Lungara termina alle pendici del Gianicolo. 

Qui si trova un angolo di Roma molto suggestivo, chiuso tra alti muri, il verde del vicino orto botanico e i resti di quella che una volta era la chiesa del convento delle suore presso la bella scalinata in fondo alla via. Dall’altro lato, a ridosso del lungotevere, troviamo una porticina, è l’accesso al parlatorio, dove i detenuti possono incontrare i familiari sotto lo sguardo severo della polizia penitenziaria.

Durante il fascismo il carcere fu prima adibito a scuola di polizia e poi, sotto l’occupazione Nazista, a prigione per detenuti politici insieme a quella più famosa di via Tasso. Durante quegli anni di oppressione straniera, un intero braccio del carcere era dedicato ai condannati a morte e le fucilazioni si svolgevano a ritmo sostenuto specialmente a ridosso della liberazione. Le cupe celle ospitarono ben due futuri presidenti della repubblica: Sandro Pertini e Giuseppe Saragat che, rinchiusi come detenuti politici, riuscirono a evadere eludendo il serrato controllo tedesco. Non andò allo stesso modo per don Giuseppe Morosini, accusato di essere un esponente della resistenza. Dopo crudeli torture per fargli confessare i nomi di altri partigiani, fu fucilato da un plotone italiano a Forte Bravetta, al segnale di “fuoco”, dieci uomini spararono in alto, due lo colpirono ferendolo gravemente, fu finito dal comandante del plotone con un colpo alla nuca.

Storia tratta da “Roma Perduta e Dimenticata” Claudio Colaiacomo, Newton & Compton 2013

Claudio Colaiacolo Twitter @ilgirodiroma501

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Lo scalino di Regina Coeli

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