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Redazione

Un asino un po' meno d'oro

Il rifugio romano dello chef Lucio Sforza da Orvieto. Fra Prati Fiscali e Conca d'oro, una scelta coraggiosa sulla location, ma una perdita del suo fascino rustico originario.

Prima di raccontare la mia ultima esperienza gastronomica, una parentesi del passato, per fare una doverosa premessa. Erano i primi giorni dell’anno 2008 quando andai per la prima e unica volta all’Asino d’oro di Orvieto. Il cuoco Lucio Sforza ci conquistò con i suoi piatti della tradizione umbra: tanta sostanza e nessun indugio agli orpelli. Chiacchierando con Lucio, scopriamo con gioia che quella magnifica scoperta appena fatta stava per trasferirsi a Roma. “Benissimo, noi abitiamo a Roma!”. Purtroppo, pare a causa di intoppi burocratici, Lucio per aprire il suo locale a Roma ci ha messo più di un anno. Noi per scoprire che lui aveva aperto ci abbiamo messo un altro anno.

Così, finalmente siamo andati all’Asino d’oro. Di Roma. Per prima cosa merita una parentesi la location. Già sapevamo che lui aveva scelto di trasferirsi in una zona ben lontana dal casino del centro: Conca d’Oro. In una delle tante vie delle valli. Una scelta coraggiosa, resa tale anche dai prezzi non troppo alti (ma neanche troppo bassi).

Lui si chiama con convinzione “Trattoria”, però questa definizione cozza un po’ con l’ambientino minimal che sicuramente la mano di un architetto ha dato al nuovo Asino d’oro. Un bel locale moderno, che ci sarebbe piaciuto tanto se non avessimo visto l’originale di Orvieto. Quello era un piccolissimo ristorante tipicamente umbro, con il calore del cotto e della pietra e con una vecchia cucina economica recuperata. Il motivo della cucina economica (di quelle bombate con i cassetti in metallo) torna anche in questa nuova sede, ma si tratta di un bel mobile moderno riadattato sulla foggia dell’antico. Positivo che i tavoli, tutti tondi, al massimo ovali, siano molto ben distanziati. Negativo che a un servizio molto curato si contrapponga una mise en place molto trascurata (tovaglietta di carta brandizzata e tovagliolo bianco come se ne trovano anche al supermercato).

Decisamente coraggioso anche il menù dove molti piatti cedono alla tradizione centroitaliana del quinto quarto. Animelle fra gli antipasti. Pajata fra i primi. Lingua fra i secondi. Benché sia una scelta coraggiosa, ha però il difetto di limitare molto la scelta per chi non ama le frattaglie. Per antipasto abbiamo assaggiato appunto le animelle: un piattone abbondantissimo e servito in maniera un po’ sciatta. Il sapore, però, faceva dimenticare qualsiasi brutta impressione. Poi un piatto di prosciutto: era davvero buonissimo ma anche in questo caso devo dire che mancava qualcosa nella presentazione. Non parlo di orpelli, che so che non sono nelle corde di Sforza, ma parlo di un accompagnamento per il prosciutto, magari con una fetta di torta al formaggio umbra. Quindi i primi: sul tavolo c’era la zuppa con cannellini con un tocco di zenzero che dava un gusto particolare. Molto più invitanti le pappardelle, servite con un sugo tipo amatriciana con l’aggiunta di funghi. Ottimi anche i tagliolini con la pajata. Fra i secondi qualche prima debacle. In questo caso quattro diversi assaggi, dal più buono al peggiore: il capocollo di maiale era una specie di roastbeef davvero delicato, con una carne morbidissima e un contrasto con la salsa di melograno davvero gradevole; il coniglio era presentato maluccio perché affogato in una salsa di battuto di verdure troppo invadente, ma complessivamente era buono; la lingua all’agro poteva vantare un’esecuzione corretta, ma per i miei gusti la consistenza della lingua era troppo morbida e la salsa all’agro davvero troppo all’aceto; “bruttis in fundo”, le polpette di pane, un piatto davvero insulso. La Caporetto finale al momento dei dolci. Qui solo due le prove: una bavarese di ricotta che aveva qualcosa di sbagliato nella consistenza, perché era granulosa; una mousse di cioccolato alla cannella ben eseguita ma con un cioccolato troppo amaro (70%) e anche se io adoro il fondente questo dolce era davvero troppo poco dolce.

Giudizio complessivo. Secondo noi il caro Lucio ha fatto qualche errore. Ha barattato la magia di una vera trattoria di paese per un locale troppo ammiccante, ma propone piatti difficili e per niente ruffiani. Con qualche caduta di stile. Questo non significa che non gli daremo una prova d’appello, né che non ci sia piaciuto. È sicuramente un indirizzo da tenere a mente, ma non è un posto che consiglierei agli amici, almeno non a quelli dai gusti semplici, per non correre il rischio di deluderli.

Ultima parentesi sui prezzi: Lucio diceva che avrebbe voluto mantenere quelli di Orvieto e diciamo che non si è discostato di molto. Peccato che le guide – il Gambero Rosso fra questi – diano una falsa aspettativa mettendolo fra i ristoranti low cost (sotto i 30 euro). Per un pasto completo, dall’antipasto al dolce, se ne vanno almeno 40-45 euro senza vini. Vero è che le porzioni sono generose e non è necessario mangiare così tanto.

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