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Venerdì, 29 Marzo 2024
Cose da Pazzi

Cose da Pazzi

A cura di Enrico Pazzi

La Grande Bellezza della Grande Bruttezza di Roma

Voglio bene a Jep, come potrei voler bene ad un padre che non riesce ad essere padre, ma solo figlio

Per i soli riferimenti che Sorrentino fa agli ultimi 60 anni di cinema italiano, la Grande Bellezza merita l'Oscar. C'è “La Terrazza” e “C'eravamo tanto amati” di Ettore Scola, “La Dolce Vita” di Fellini e in ultimo un autocitazione come “Il Divo”. Un film fatto di affreschi, con una autentica fotografia politica, nel senso che quei chiaroscuri, quei colori vividi, quelle ombre a lume di candela nei palazzi, nelle ville, tra le strade del Centro, sulle terrazze, vogliono raccontare una storia. Una storia fatta di istantanee, legate l'una all'altra dalle cronache della una vita ridicola di Jep. Ed essendo la storia della storia degli ultimi 40 anni del nostro Paese, il plot non può che essere una serie di facce, tic, vizi e virtù di una generazione.

Sorrentino racconta la disillusione di quella generazione di Sinistra che da Lotta Continua, si ritrova a sorseggiare vini e leccornie da Slow Food su una terrazza romana con vista Colosseo. Racconta di inedia, tedio e disincanto. Il fallimento di un primo amore (l’idea e la passione politica di un tempo) che si anela tutta la vita di rivivere. Se le avessi dato un bacio, se avessi avuto più coraggio, se avessi rinunciato alla rinuncia. E come disse il poeta, "Non hai mai amato se non hai dato tutto".

Jep è questo Paese. Consapevole di avere un grande talento, ma vittima della “Grande Bellezza", che è il nostro Paese stesso. Troppo bello per poterlo raccontare, perché raccontandone solo una parte, si resta impotenti nell'immane sforzo di raccontarne anche il resto. Troppo brutto nei suoi vizi, da apparire in tutta la sua bellezza estraniante.

E tutto il resto non raccontato, spesso, è tutto quello che in realtà siamo o vogliamo essere. Ed allora, non rimane che raccontare la propria impotenza, la propria sterilità. Se gli Americani hanno il Grande Lebowski, anche lui testimone e reduce di una rivoluzione fallita, rimasta sulle piste da bowling, noi abbiamo Jep. Ed è un racconto epico (una delle ragioni, tra le tante, del fascino che esercita presso gli intellettuali americani), che restituisce un clima narrato in un continuo rimando tra l'interiorità del nostro eroe e l'esteriorità degli ambienti che lo irretiscono, lo affascinano e ce lo restituiscono con lo sguardo perso nel vuoto su un divano letto in un trilocale di prestigio.

Voglio bene a Jep, come potrei voler bene ad un padre che non riesce ad essere padre, ma solo figlio. Figlio di un buco nero dove, oramai persosi, non gli rimane che rimirare quel poco di talento e quei tanti fallimenti. Rimirare la propria mediocrità davanti ad uno specchio, dietro il quale troneggiano le rovine di Roma, i palazzi patrizi, le stoffe di porpora. Tutta questa Grande Bellezza che ci ricorda come tutto sia vacuo, inutile ed irrilevante davanti alla Storia. Una storia che non riusciamo mai a raccontarci ma che continuiamo a voler raccontare. Inesorabilmente destinati al fallimento.

La Grande Bellezza della Grande Bruttezza di Roma

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