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Venerdì, 19 Aprile 2024
Abitare Roma: le parole per dirlo

Abitare Roma: le parole per dirlo

A cura di Antonello Sotgia

Non era solo una scuola, era un'altra città: la lezione di Simonetta Salacone

A differenza degli urbanisti, che sovrappongono le proprie idee alla vita degli altri giungendo a incolpare chi “abita” i loro progetti per non capirli, è solo abitando, quando arrivano uomini e donne, che quei disegni diventano pezzi di città. Parlo di pezzi perché quando ci si accorge che a quei disegni una volta realizzati manca di tutto, ecco pronti gli architetti a dire che la colpa non è la loro, che è il Comune a non aver portato i servizi, che questa non è città. La colpa è sempre ricercata lontana dal tavolo da disegno (oggi dallo schermo del computer). Come se progettare non fosse immaginare il futuro, costruire lo spazio dove uomini e donne si troveranno a vivere, a disegnare a loro volta la loro vita. Sono molti gli esempi di spazi “infelici” nelle città.

Forse sarebbero stati migliori se chi chiamato a disegnare si fosse fatto una semplice domanda “cosa sono chiamato a fare?” ed anche “chi è che me lo chiede?”. Le città sono costruite da chi abitandole le rende tali proprio facendosi domande per modificarle. A volte si deve lottare. Anche a lungo. Il caso recente della “truffa” legata ai piani di zona parla proprio di questo. Del disperato tentativo di chi ha creduto possibile abitare una città dove per esempio non dover sacrificare tutta la propria vita per raccattare il denaro necessario ad acquistare o fittare una casa. 

Dove, per esempio, avere innanzitutto quei servizi essenziali che rendono lo svolgimento della propria vita qualcosa di diverso della continua lotta per la sopravvivenza. Dove, per esempio, non trovarsi buttato per strada dopo aver creduto a qualche imprenditore (sic!) che ha sfruttato il tuo disagio per fare cassa, dichiarare fallimento e sparire aprendo per te e la tua famiglia il baratro della cacciata da quella che credevi essere la tua casa.

A volte le città sono costruire da una persona. È il caso di Simonetta Salacone, la leggendaria “direttrice” della scuola Iqbal Masih, scomparsa oggi, 27 gennaio. Una storia straordinaria che parte da un giorno, quando “la Salacone” arriva al Casilino 23. In quel quartiere dove l’architetto ha costruito l’abitare pensando di disporre gli edifici quali altrettanti bastoncini dello Shanghai. Una volta gettati sul terreno, la punta di quelle case, guarda a un centro lontano che “tiene” la loro disposizione a raggiera. Come se, l’abitare popolare, che quel piano di zona è chiamato ad interpretare, dovesse essere tenuto a balia dalla potenza fisica ed economica piantata, come un compasso in una zona “altra” della città. Quell’architetto certo sapeva fare i disegni, ma non i conti. 

Non avrebbe mai immaginato che intorno a quelle stecche di altezza differente, quel quadratino, da lui disegnato come un “servizio”, sarebbe diventato una scuola. La "Iqbal Masih" ha saputo, a differenza del lavoro di quell’architetto, costruire un territorio che va anche oltre le strade che bordano le sue case e farsene centro. Simonetta Salacone è riuscita lì a impastare le forme dell’abitare con il rispetto, la dignità e la libertà che quei bastoncini di cemento gettati sulla terra come un gioco non riusciranno mai ad imprigionare. Non è un pezzo di città è la città. In quella scuola, proprio dai bambini, abbiamo imparato che tutti quelli che, pur non abitando quelle stecche, hanno scelto d’avere come cielo sulla sua testa il cielo della nostra città, non potranno mai essere cacciati.

Al Casilino non ci sarà mai nessuno da tenere lontano. Questo grazie a questa meravigliosa maestra che ha saputo prendere dalla città la ricchezza rappresentata da tutti i suoi abitanti e che non tenendo nulla per sé ha restituito a tutti noi.
 

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