rotate-mobile
Abitare Roma: le parole per dirlo

Abitare Roma: le parole per dirlo

A cura di Antonello Sotgia

Questa è una domanda. Il libro di Militanta A su una scuola che parla all'abitare

Il miglior metodo per trovare risposte spesso è la capacità di porre domande. Un recentissimo libro - un romanzo non autorizzato- "Soli contro tutto" di Militant A Assalti Frontali lo dimostra

A volte le parole più che aiutarci a descrivere la città in cui viviamo ci servono a capire come questa potrebbe essere. Capita, poi, che  a prenderci per mano per insegnarci a perderci in città che, come ci ha spiegato Walter Benjamin, è arte tutta da scoprire, le parole prendano altre forme. A seconda di chi le usa . Per gli architetti i disegni; rettangoli di carta per i fotografi; fotogrammi che si rincorrono l’un l’altro per il mondo del cinema. Disegni, foto, immagini, o anche: suoni, note, appunti sonori, sono le parole che ognuno di noi esprime e ascolta per cercare di capire qualche cosa in quell’alfabeto scompigliato che sono le città.

Espressioni diverse che tuttavia, a ben guardare  (o ascoltare), hanno tutte in comune il permetterci di vedere le cose che noi, per quanti sforzi facciamo, non riusciamo a vedere. Anche se siamo lì vicino quando accadono. Anche se quello che ci capita davanti agli occhi  ci sembra non aver nulla di particolare. Capita. Anche ai più curiosi. Anche a chi, sono (siamo) in molti, sa che il meraviglioso urbano è lì pronto ad attenderci. Capita anche a Roma dove, da qualche tempo, tutto sembra più difficile. In molti, infatti, hanno rinunciato a usare le parole per porre domande. Le usano per offrire risposte. Quelle con cui vorrebbero, proprio, eliminare le incessanti domande che la città pone  a se stessa. Di questo sono fatte le città; di questo è fatto l’abitare: di domande.

Succede a Roma in questo periodo in cui la crisi picchia duro, quando in molti, ancor prima di chiedersi se la città debba essere capace di accogliere tutti sotto il proprio cielo, rispondono che questa non è una domanda perché – facendo riferimento ad un esempio attuale -  urlano: chi non ha casa non può andare ad occupare le tante che sono sfitte. Chi non ha casa, chi non riesce più ad  arginare sfratti e povertà, oltre a vedersi negare il diritto all’abitare, se prova in qualche modo ad occupare un palazzo magari lasciato vuoto da anni, se prova, tanto per avere un tetto sotto cui ripararsi, a vivere in condizioni sempre precarie, ma almeno all’asciutto, non avrà acqua , non avrà luce.

Questa è la risposta del Governo  (decreto Lupi) che, come  i molti di cui sopra, non si domanda come un paese possa affrontare decentemente il problema dell’emergenza abitativa. Il decreto di Lupi è  una domanda dispotica con un’aggiunta. Se magari l’occupazione è avvenuta da tempo  e occupando ha domandato alla città, come fa ogni occupazione, se  varcare le soglie delle tante stanze vuote, invece dell’essere quel veleno dell’abitare che si vorrebbe attribuirgli, non possa essere proprio l’antidoto a questa melassa  di cemento fatta da case vuote e tanti senza casa, il ministro Lupi risponde che ogni occupante  verrà privato insieme con l’acqua e la luce anche della  residenza. Lui e i suoi figli saranno fantasmi urbani. Cacciati dalle case, dalle scuole, dall’assistenza sanitaria. Se ci fossero, dalle forme di welfare. Succede nel nostro paese. Succede a Roma.

Siamo circondati da risposte (ancora parole e tante) che non riconoscono l’esistenza e la possibilità di fare domande, incapaci di ascoltare le parole che le costruiscono.  A dimostrare  invece  questa possibilità ora un recentissimo libro - un romanzo non autorizzato- “Soli contro tutto” ( Militant A Assalti Frontali- Editori  Internazionali Riuniti Roma 2014 euro 15,00) riesce a farci a capire come sia proprio la capacità di porre una domanda il miglior metodo  per fornire risposte.

A renderlo possibile, nel libro, sono in molti:  i “soli contro tutto” che un giorno  si sono trovati di fronte a  vedere con i propri occhi che cosa sarebbe diventata la scuola dopo la riforma della ministra Gelmini. La fine della scuola pubblica è raccontata da un osservatorio particolare: quello straordinario esperimento di educazione solidale rappresentato dalla leggendaria scuola  romana di Centocelle Iqbal Masih.  La fine del “tempo pieno”, il ritorno “ al maestro unico”, la diaspora al posto dell’ integrazione  tra  le varie comunità della Roma meticcia, si intreccia con chi, anche con queste distruzioni, persegue il progetto di rendere sempre più misero l’abitare costringendo ognuno a pensare di farcela da solo e, quindi, a consegnarsi all’indebitamento perenne con cui la città disegnata dalla finanza intende avvolgere la vita di tutti noi.  

Quando  ci si trova “contro tutto” non si può infatti  restare soli . Il libro ci racconta proprio di questo. Del tentativo, a partire dall’occupazione  con bambini  e famiglie delle aule, di salvare la scuola  pubblica. Dell’uscire  fuori da queste mura, del  mettere insieme i tanti corpi dei bambini e  dei loro genitori, con chi ha dedicato e dedica la vita all’insegnare, capire che ognuno quando non è solo e decide di non esserlo rappresenta una ricchezza da non perdere.

Allora la parola, il narrare serve. Serve, come in questo caso, perché diviene il luogo dove  il quotidiano si mischia con il generale, lo stupore con il riconoscimento che quello che sembra diverso, quello che succede nelle strade del centro, nelle altre scuole, nell’università, negli uffici inzeppati di circolari e montagne di carta, nelle assemblee lì sotto i palazzi del potere, nei cortei animati da un rap cantato insieme ai bambini,  tutto questo ( e molto altro), è proprio il non riconoscersi soli.  

Il narrare, come quello  messo in campo da Militant A  degli Assalti, serve non solo a raccontare di questa lotta, serve a raccontarci di come questi bambini e le loro famiglie siano riusciti  a fare “territorio”;  a fondere persone e situazioni diverse, ad accorgersi  che nel “canalone”  verso il Parco di  Centocelle , quello che non si vede neppure dall’alto delle eleganti stecche residenziali disegnate da Ludovico Quaroni, ci siamo sempre noi. Così come ci siamo  nella fabbrica Metropolitz sulla Casilina, nella ex concessionaria dove abbiamo tirato su case (ora abbattute) che sarebbero certo piaciute a quell’architetto. Solo che non ci domandano chi siamo; sono pronti con le loro risposte: siamo “zingari”, dobbiamo andar via, non portare più i nostri figli alla Iqbal Masih. La solita risposta sgomberi e andare lontano.

Il libro ci racconta proprio di come questa lotta gentile e determinata al tempo stesso, sia stata capace di costruire insieme alle proprie ragioni il territorio dove farla vivere. Un racconto veloce che ci fa capire  che non riconoscendoci mai come soli sarà possibile sconfiggere il tutto e non ci sarà più nessuno da tenere lontano. Ma poi  lontano da dove? Questa è una domanda.

Si parla di

Questa è una domanda. Il libro di Militanta A su una scuola che parla all'abitare

RomaToday è in caricamento