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Venerdì, 19 Aprile 2024
Abitare Roma: le parole per dirlo

Abitare Roma: le parole per dirlo

A cura di Antonello Sotgia

Nomentano

Il museo della Shoah non cerca casa

Progettare uno spazio è diverso che allestire una mostra. E il progetto di Villa Torlonia, pronto a ricreare il 'silenzio dopo Auschwitz', non è intercambiabile con uno spazio all'Eur

Un progetto è un progetto. Un allestimento è un’altra cosa. Il primo costruisce il senso complessivo di quello che si  vuole insediare a partire  dal dialogare con il tessuto e/o il paesaggio che l’accoglie. Il secondo lavora all’interno di uno spazio  “dato” . Intesse le proprie  relazioni  con ciò che allestisce. Il Museo è il luogo dove elementi materiali ed immateriali  si mostrano ai visitatori, a chi vuole conoscere la loro storia. E’ attraverso loro che  continua la narrazione del mondo .

I musei sono progettati od allestiti. Grandi  nuovi contenitori  sono riusciti perfino a rifondare le città. E’ il caso  del Guggenheim di Bilbao il centro spagnolo   messo in ginocchio  dalla crisi industriale sul finire degli anni 80. Il museo di Frank Gehry ha fatto di quella  città una  vetrina mondiale. In Italia sono numerosi gli esempi di allestimenti museali capaci  di legare tra loro ciò che si vuole mostrare con ciò che esiste.

Senza scomodare  i grandi maestri dell’architettura moderna come Franco Albini e il suo straordinario museo del Tesoro della Cattedrale di San Lorenzo a Genova, considerato un vero e proprio libro di pietra in materia espositiva, restando a Roma, basterebbe farsi un giro alla centrale Montemartini  all’Ostiense per venir raggiunti dalle scintille poetiche che emanano dal confronto tra i vecchi impianti industriali e  sculture dell’età romana.  Due tipologie di oggetti che sembrano scambiarsi di posto vicendevolmente.

Quando la città  decide di dotarsi di un altro museo, una necessità e non un lusso, può quindi scegliere all’interno di queste due tipologie: progettare, allestire. Non può farlo tuttavia quando, con un museo,  non si vuole soltanto mostrare qualche cosa o raccontare una storia (delle storie). Non può farlo quando, il museo racconta una storia che ha segnato il nostro stare al mondo.

Solo l’architettura è capace infatti di costruire il silenzio,  di portarci, quasi prendendoci per mano, in un vuoto, in un luogo dove ci si possa sentire soli con se stessi  e chiederti il perché sia successa quella cosa , come fare per non farla ripetere.

Questo accade alle Fosse Ardeatine. Qui è il silenzio a  condurci  all’interno delle cave, a farci avvolgere dalla grande lastra che ci fa sentire come il cielo, quel giorno dell’eccidio nazista, sia precipitato sulla terra.  A Madrid alla stazione  Atocha.  Un grande cilindro racchiude con una possente ma leggerissima torre del silenzio i mille e mille biglietti che i cittadini lasciarono sul luogo della strage quel maledetto 11 marzo del 2004.  A ricordare e ad ammonire.

Di questi giorni è la decisione di non realizzare più il Museo della Shoah a Roma nel luogo dove era stato pensato. Non più Villa Torlonia, per cui era stato acquisito il terreno; non più il parallelepipedo sospeso progettato da un team guidato da Luca Zevi.  Si parla di sostituire il progetto per un allestimento in uno dei tanti spazi inutilizzati degli edifici dell’Eur. Il progetto della Shoah rischia, se questo avverrà, di non diventare quell’individuo edilizio che a Roma manca e manca da tempo.

In questi giorni è stato tutto un parlare su quando un edificio possa essere riconosciuto come di “pubblica utilità”. Per lo stadio si sono bruciati tempi e procedure per far atterrare, nell’ansa del Tevere, quell’infrastruttura sportiva accompagnata da 900 mila metri cubi. La stessa tempistica non si è trovata per il Museo della Shoah  facendolo attanagliare da inspiegabili ritardi procedurali, bandendo una gara per la sua realizzazione e tenendo le buste delle offerte inspiegabilmente  chiuse. Il fragore metropolitano  che ha accompagnato questa fretta di costruire  ha finito con il nascondere la decisione di sostituire  la costruzione di questo luogo del silenzio con un allestimento.

Il sindaco Marino fa riferimenti sempre alle altre capitali europee.  Sarebbe forse il caso che andasse a Berlino. Lì Daniel Libeskind ha realizzato il Museo ebraico. Un edifico duro. Uno spazio quasi inaccessibile e straordinario proprio per questo:  il vuoto mostra il silenzio. Dopo Auschwitz  è il silenzio che rappresenta la fine perché “considerarsi parte di una fine è già l’inizio di qualcosa”.                                                                     

Roma deve avere questo museo lì dove è stato pensato con un progetto. Perché ci sia sempre un inizio che, come é avvenuto in questi giorni, non può essere rappresentato dai venti e dalle azioni di guerra. Anche da  parte di chi quel terribile silenzio ha dovuto subire.

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