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Abitare Roma: le parole per dirlo

Abitare Roma: le parole per dirlo

A cura di Antonello Sotgia

Ognuno cerca il proprio gatto

La Grande Bellezza di Roma e la città reale stretta tra il cemento, la difficoltà di movimento e disservizi. In mezzo la lezione di Italo Calvino in Marcovaldo

Abitare Roma per i più è duro. Ad iniziare dalle oltre cinquantamila famiglie che la casa proprio non ce l’hanno. E’ lo stesso per chi magari la casa ce l’ha, ma vive con l’incubo di venir cacciato perché, costretto a scegliere tra pagare l’affitto e mangiare, mangia. Per ora. Abitare Roma è sempre maledettamente complicato.

 A te, per accorgertene, basta salire su un autobus dopo averlo aspettato a lungo; restare bloccato in metro nelle viscere della città perché manca la manutenzione dei mezzi (accade indifferentemente sia sulla linea “A” che sulla “B”); camminare a fatica su di un marciapiede con la pavimentazione divelta; vederti sbarrare la strada da un cassonetto ricolmo; essere informato che dovrai lasciare a casa l’auto perché i valori dell’inquinamento si sono impennati;  iniziare a fare i conti di quanto ti costerà il decreto “Salva Roma”. Quella “cosa” che non hai capito bene cosa sia, ma che non è certo un tuo debito anche se sarai anche tu a pagarlo.

 Sono queste cose che scandiscono la tua vita quotidiana. Oltre a tante altre che leggi sui giornali ma che tu vivi in prima persona. Quando vedi serrato quel negozio perché, c’è scritto sulla saracinesca, era della criminalità organizzata. Quando la notte cerchi una farmacia comunale e scopri  che non fanno più il servizio notturno. Loro, le comunali, tutte chiuse; aperte quelle private che ti caricano anche il costo della “chiamata”.  Quando non trovi posto per tuo figlio alla materna. Quando tutto questo ti capita  e ti capita tutto assieme. Quando, sfinito, ti scopri a pensare  che vorresti andare “fuori” e “lontano”. Lasciarti dietro le spalle il condominio per, magari, una di quelle piccole casette attaccate le une alle altre  che in questi anni hai visto spuntare fuori dal nulla.

 Ti accorgi che mentre  tu cercavi  il tuo gatto, la città non voleva che tu avessi un  gatto. Così riprendi a dire che la città non si può vivere, che Roma, anche per tutte queste cose, è brutta.

Da qualche giorno, però, senti dire da tutti, anche  da quelli che incontri sull’autobus nelle stesse condizioni in cui si trovavano nei giorni passati; quelli che fino a ieri imprecavano contro Roma; quelli che non riuscivano a capire perché Roma se ne fregasse di loro ( e dei loro gatti); quelli che dicevano “Roma fa schifo”, ora dicono, dopo averla vista in un film spiaggiato sul teleschermo da una marea di pubblicità, che Roma è bellissima , ma che sei proprio tu a farla brutta.

Tu che non vai alle feste sui terrazzi di Piazza Barberini, tu che porti il tuo corpo in corteo  in quelle stesse strade, tu che  gridi la tua rabbia perché non vuoi che la tua vita sia considerata una merce; tu che non scopi in modo annoiato in una casa affacciata sulla piazza più bella del mondo;  tu che sai bene che la periferia non è una zona del piano regolatore, ma un posto dove gli energumeni del cemento che hanno costruito questa grande città, ti costringono a vivere senza nulla; tu che al posto di siepi “pettinate” in giardini  nascosti, hai finito con il considerare “verde” anche uno scampolo di prato spelacchiato, sottratto (per ora) al cemento.

 Tu sei colpevole perché  conosci la lezione di Calvino ( “il giardino dei gatti ostinati”in Marcovaldo):  “La città dei gatti e la città degli uomini sono l’una dentro l’altra, ma non sono la medesima città. Pochi gatti ricordano il tempo in cui non c’erano differenze: le strade e le piazze degli uomini erano anche le strade e le piazze dei gatti, e i prati, i cortili, e i balconi, e le fontane: si viveva in uno spazio largo e vario.” Ora, tu lo sai bene, questo spazio non esiste più, stretto come sei (siamo) da una melassa edilizia.

 Tu però,  a differenza di chi scopre oggi la bellezza della città, sai come va a finire la storia dei gatti raccontata da Calvino. “Al posto del giardino un’impresa di costruzioni aveva impiantato un gran cantiere(..) il cemento colava nelle armature in ferro, un’altissima gru(….) Ma come si faceva a lavorare? I gatti passeggiavano su tutte le impalcature, facevano cadere mattoni e sacchi di calce, s’azzuffavano in mezzo a sacchi di sabbia. Quando s’andava per innalzare un’armatura si trovava un gatto appollaiato in cima che sbruffava inferocito.  Mici sornioni si arrampicavano sulle spalle dei muratori con l’aria di voler fare le fusa e non c’era modo di scacciarli.”

Tu sai perché.  Solo tu e il tuo gatto sapete come fare per far bella la città.  La grammatica dell’abitare contempla anche il verbo resistere  e il verbo  lottare,  il suo complementare.

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