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Martedì, 23 Aprile 2024
Abitare Roma: le parole per dirlo

Abitare Roma: le parole per dirlo

A cura di Antonello Sotgia

Consumo di suolo, oltre le parole il nulla: i candidati preferiscono non guardare le carte

Capita entrando o uscendo da Roma. Ti guardi intorno, una volta sorpassato il Grande Raccordo Anulare, quando ti pare che quelle che stai in quel momento vedendo al lato del tuo senso di marcia siano proprio le ultime case della città. Dura poco. Il vuoto che tu prendi come anticipo della campagna subito dopo viene contraddetto da un altro insediamento. Poi si ricomincia. Ancora case, capannoni, centri commerciali in forma compatta e diffusa, ed ancora vuoti. Può durare (dura) per molti chilometri.

Questa è Roma. Dopo il raccordo, e in alcuni casi, come  lungo la Tuscolana o la Pisana, avviene anche prima di quell’anello.  Gli urbanisti  la chiamano “conurbazione” classificando così quei vasti territori  divisi da confini ”amministrativi”, ma tenuti assieme da una melassa continua di case.  Gli urbanisti più attenti, ma non solo loro, rapportando questo sciagurato modello insediativo al funzionamento (quindi al futuro) della città, parlano di “consumo” del territorio.

Per questo sono in molti ad affermare che sarebbe il caso di “far riposare la terra”.  Che il suolo è un bene che, pena la stessa sopravvivenza delle città, andrebbe salvaguardato. Che al posto di costruire nuove case si potrebbe pensare ad una nuova (inedita almeno nel nostro paese) stagione del “recupero” edilizio. Mettere le mani su quanto oggi è abbandonato. Rianimare i numerosissimi “fossili” edilizi impaludatisi  nel tessuto urbano. Costruire nel costruito.

Una nuova visone che, sebbene proclamata in più occasioni, non sembra essere ripresa, se non come sola dichiarazione di principio, nei programmi dei vari candidati  a sindaco. Viene infatti affermata, pressoché da tutti, la necessità di non “bruciare” territorio, di recuperare quanto fin qui costruito ed abbandonato. Nessuno, però, va oltre.

Non sarebbe male che, magari sottraendo solo poche ore ai giri elettorali o a trovare la foto più accattivante da  sparare su f/b o, succede ancora, da spalmare su autobus e cartelloni, andassero a vedere quattro tavole che compaiono in un recente piccolo libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani: Roma Disfatta (ediz.Castelvecchi euro 16,50.anno 2016).  I due autori parlano del perché la Capitale non è più una città e di  cosa fare per ridefinirla sulla base dell’interesse pubblico.

Gli aspiranti sindaco probabilmente concordano tutti sul primo assunto dei due autori (non essere Roma più una città). Legittimo che molti di loro - i cui programmi, quando ci sono, lo dimostrano infarciti come sono di “privatizzazioni” dei servizi ed “esternalizzazioni” dei lavoratori- siano contrari alla proposta di riportare la “governance” cittadina sotto la regia pubblica. Più difficile da comprendere perché le loro scelte e le loro opzioni su come intendano cambiare la città non tengano conto di come la città è fatta.

Modesta proposta: si vadano a vedere  anche solo le carte di quel libro. Sono quattro. Qui due giovani architetti in veste di cartografi A.Guralongo e M.Cerulli hanno fatto una semplice (quindi sorprendente) operazione rapportando i dati aggiornati sulla popolazione alle principali articolazioni del territorio. Quanti siamo. Dove siamo. 

Osservandole scopriranno anche il perché del fenomeno delle case che si alternano ai vuoti che incontriamo intorno e oltre il raccordo. A Roma infatti negli ultimi trent’anni la popolazione non è cresciuta di molto (siamo 2.873.976 abitanti), mentre si è raddoppiata la superficie urbanizzata.  Questo vuol dire che, dividendo  le persone per terreno urbanizzato, si avrà che la densità edilizia per ettaro è di sole 56 persone.

Un  numero da rabbrividire. Ci consegna un dato che chiunque  si è candidato a sindaco non considera: far vivere realmente una città così comporta  un costo drammatico facendo precipitare l’abitare di tutti costretti a rincorrere le scorribande degli energumeni della rendita a cui dobbiamo sottostare pagando, in termini di tassazione o di privazione di servizi giorno dopo giorno oggetto di tagli di bilancio,  i costi per legare le  loro realizzazioni edilizie al corpo della città. 

Per questo, gli aspiranti sindaco, preferiscono non guardare le carte. Limitarsi alle petizioni di principio gli permette  il non  dover ammettere, vale per tutti loro, l’impossibilità di tirarci fuori da una città disfatta. Consegnata da sempre alla rendita immobiliare. Condannata alla decadenza. 

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