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Giovedì, 25 Aprile 2024
Attualità San Basilio / Via di Scorticabove

"Dov'è la nostra protezione internazionale?": i rifugiati di via Scorticabove rivendicano i loro 13 anni in Italia

Oggi la protesta fuori dalla sede di Unhcr ai Parioli dopo lo sgombero e la notte in strada

Cercano appoggio dall'Unchr, l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati con sede ai Parioli, i 120 ragazzi del Sudan sgomberati ieri per mano del Campidoglio da uno stabile di via Scorticabove a San Basilio. Fuori dal portone aspettano calmi, quasi in silenzio, che qualcuno li riceva, tenendo alto lo striscione: "Dov'è la nostra protezione internazionale?".

L'ente dell'Onu non ha poteri di intervento immediati, ma certo un pressing sul Comune, dato il prestigio e la risonanza dei suoi rappresentanti, potrebbe essere utile. Perché la soluzione prospettata dall'assessorato alle Politiche sociali è quella di rientrare nel circuito di accoglienza extra Sprar. Loro però sono a Roma da 13 anni. Molti lavorano, qualcuno studia, altri si appoggiano ai "fratelli" che riescono a racimolare uno stipendio seppur minimo. Rientrare nell'universo assistenziale sarebbe uno schiaffo non da poco ai faticosi tentativi fatti di camminare sulle proprie gambe. E infatti stanotte sono rimasti a dormire in strada, intenzionati a non muoversi: "E' la nostra casa"

"Mi hanno telefonato ieri mentre ero a lavoro dicendomi che la polizia aveva sfondato la porta e ci stavano mandando via". Amen ha 31 anni, e alterna due lavori: interprete e buttafuori di notte in un locale. Ma ha anche una borsa di studio a La Sapienza. "Faccio economia - sorride - è difficile". Anche Salih, 28 anni, avevo cominciato lo stesso percorso universitario ma per adesso ha interrotto. "Lavoro a una bancarella". In diversi hanno trovato un impiego ai banchi di vestiti che invadono i marciapiedi della città. Altrettanti, come Assan, 35 anni, fanno i lavapiatti nei ristoranti. 

Soumahoro: "Raggi si prenda sue responsabilità"

Ma chi restava a casa, in via Scorticabove, non stava con le mani in mano. Stanze e corridoi del plesso venivano sempre puliti, i rifiuti differenziati, la spesa fatta per mangiare insieme. "Magari non in 120 perché siamo troppi e non è che possiamo stare tutti a casa con la stessa", ma a gruppetti sì. Piccole famiglie dentro una famiglia gigantesca che si è autosostenuta fino a ieri. "Avevamo una cassa comune per le spese delle utenze" racconta Adam, 32 anni, impiegato come addetto alla sicurezza di una nota catena di supermercati. Certo, riuscire a pagare un affitto con i risparmi, pochissimi, di ognuno, è un'impresa. Ma forse a un prezzo di favore, date le condizioni sociali degli occupanti, si poteva tentare. "Noi i proprietari non li abbiamo mai visti" ci spiega con rammarico. Come a dire che forse se li avesse incontrati faccia a faccia, chissà che non li avrebbe convinti della bontà del progetto.  

I rifugiati cacciati dormono in strada

Finché c'erano i membri della coop gestore, poi coinvolta in Mafia Capitale e sparita nel 2015 senza più pagare l'affitto, e lo stabile era a tutti gli effetti un centro di accoglienza, loro si rapportavano con gli operatori sociali. Poi, lasciati soli, si sono dati da fare per andare avanti, mettendo su un modello quantomeno raro di accoglienza, privo di ogni tipo di intermediazione.

"Hanno tentato di avviare un percorso per costituirsi in associazione culturale e poter accedere a un bene pubblico del Comune con un progetto di autorecupero" spiega Margherita di Blocchi Precari Metropolitani, a fianco dei giovani sudanesi davanti alla sede di Unhcr. Poi la giunta Marino è caduta, e con il commissariamento prima e il governo Raggi poi l'iter si è interrotto, fino allo sgombero. E alle solite soluzioni che non prevedono nessuna prospettiva nuova, nessun cambio di rotta, nessun nuovo utilizzo della cosa pubblica. "Eppure le strutture ci sarebbero eccome - chiude l'attivista dei Movimenti per l'abitare - il Comune ha firmato da poco un regolamento sui beni confiscati alla mafia"

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