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Il prezzo è ingiusto

Il caos generato dalla vendita a libero mercato delle case costruite in edilizia agevolata, tra richieste di rimborso di centinaia di migliaia di euro e le vite in bilico di chi prova a venirne fuori

Dopo il viaggio nei piani di zona della Capitale, tra affitti gonfiati, sfratti e pignoramenti, procedimenti penali e revoche dei finanziamenti, Roma Today entra nel vivo di un’altra storia legata a queste abitazioni realizzate grazie a un programma di edilizia pubblica. Quella della loro cessione a prezzi di mercato. Solo a Roma si stima che tra le 200 e le 250 mila compravendite abbiano interessato appartamenti di edilizia agevolata, costruiti su terreni di proprietà comunale e con finanziamenti pubblici, destinati a famiglie con determinati requisiti come quello di un reddito non troppo alto.

La grande truffa dei Piani di zona

La prima vendita avveniva a un prezzo agevolato stabilito per legge. Dalla seconda in poi a determinare il prezzo erano venditore e acquirente, come per qualsiasi altra abitazione privata. Chi voleva vendere veniva indirizzato su una sola strada: il Comune concedeva i nulla osta alla vendita a prezzi di mercato, i notai rogitavano, le agenzie immobiliari facevano da intermediari. Perché il vincolo del prezzo calmierato dopo cinque o dieci anni era considerato decaduto. Si tratta del cosiddetto prezzo massimo di cessione che per ognuno di questi immobili viene messo nero su bianco nelle convenzioni firmate dal Comune che concede i terreni e dal costruttore, spesso cooperative edilizie, che realizza i palazzi. È andata avanti così per molti anni. La maggior parte di queste case è sorta negli anni novanta. La differenza tra il costo del primo acquisto e quello della successiva cessione, in molti casi complice del passaggio dalla lira all’euro, del boom immobiliare del primo decennio degli anni duemila e del progressivo completamento di quartieri nati senza servizi, ha raggiunto anche picchi dei 300mila euro.

Tutto cambia nel settembre del 2015 con una sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, la numero 18135, con la quale viene stabilito che il prezzo agevolato non si sarebbe dovuto estinguere con il primo proprietario ma avrebbe dovuto seguire l’immobile. Solo una legge che era stata introdotta nel 2011 permetteva la vendita a valore di mercato: il vincolo del prezzo calmierato poteva essere rimosso solo trascorsi 5 anni dall’acquisto e dietro versamento di una quota al Comune di Roma, le cosiddette affrancazioni, con tanto di stipula di una nuova convenzione scritta (resta irrisolto il nodo della proprietà del suolo, soggetta a un altro iter). Nonostante questo fino al 2015, però, si è proseguito senza versare nulla al Comune. Per il Campidoglio era così: “Le convenzioni stipulate da Roma Capitale [...] non introducono divieti convenzionali di inalienabilità delle singole unità abitative decorsi, ovviamente, i cinque anni dal loro primo trasferimento”, scrive il dipartimento Programmazione e attuazione urbanistica di Roma Capitale in una lettera del 21 febbraio 2013 che dà ai notai il nulla osta alla vendita senza affrancazione.

Dopo la sentenza della Cassazione, però, la paralisi è scattata quasi subito. I primi effetti si sono visti sulle compravendite in corso che vengono fermate dai diretti interessati in attesa di capire come muoversi. Chi aveva già fissato i rogiti, sia della vendita della propria casa, sia di quella futura, si ritrova bloccato. Qualche mese dopo la questione è finita in Tribunale. Migliaia di persone che avevano acquistato queste case a prezzi di libero mercato, infatti, si sono ritrovate con abitazioni che valgono circa un terzo di quanto erano state pagate. È così che i venditori si ritrovano nella cassetta delle lettere richieste di rimborso per centinaia di migliaia di euro, pari alla differenza tra il prezzo massimo di cessione e la cifra sborsata. C'è anche chi ha comprato e rivenduto a prezzo di mercato e si ritrova comunque richieste di risarcimento. La questione affrancazioni diventa un incubo per migliaia di famiglie. 

Il meccanismo delle affrancazioni, però, seppur molto lento a causa di un ingolfamento delle pratiche negli uffici capitolini, con qualche migliaio di euro (la cifra viene calcolata in base a una serie di parametri tra cui il valore delle aree) permette di ‘liberare’ l’immobile da vincoli relativi al prezzo. Decine di procedimenti si risolvono così con un accordo in mediazione con il venditore che si impegna a versare all’acquirente la cifra per affrancare più altri soldi che ammontano a cifre molto diverse a seconda dei casi. Non in tutti i casi la mediazione funziona e molte richieste di rimborso proseguono fino ad arrivare alle condanne in primo grado che per i venditori aprono l’incubo del pignoramento della casa acquistata nel frattempo. Insieme alla polemica montano anche le proteste.

Alla fine del 2018 al Senato viene approvato un emendamento alla legge di Bilancio che modifica l’articolo della legge del 2011 relativo alle affrancazioni: la rimozione del vincolo, trascorsi i cinque anni, può essere richiesta anche da “persone fisiche che vi abbiano interesse” anche se “non più titolari dei diritti reali sul bene immobile”. Anche i venditori iniziali possono quindi liberare l’immobile dai vincoli del prezzo. Elaborata da esponenti del Movimento cinque stelle, caldeggiata dai notai, festeggiata dai venditori e osteggiata dagli acquirenti che sostengono che i danni subiti siano maggiori del semplice valore dell’affrancazione, la modifica legislativa ha l’effetto di congelare decine di cause. Al venditore basta avanzare al Comune la richiesta di affrancazione, anche se non ancora effettivamente conclusa, per veder allungare il tempi della procedimento.

Le affrancazioni però proseguono a rilento. A distanza di un anno il decreto attuativo che dovrebbe indicare ai Comuni le modalità di calcolo del prezzo delle affrancazioni non è ancora stato approvato. Il nodo non è da poco dal momento che stabilisce il prezzo che migliaia di persone dovranno pagare per uscire da questa situazione. Le ultime indicazioni ufficiali in merito risalgono al 9 ottobre scorso quando il deputato del Pd, Gian Mario Fragomeli, in commissione Finanze ha presentato un’interrogazione a risposta immediata chiedendo “quale sia la ragione del ritardo nell'emanazione del decreto”. A rispondere è il sottosegretario all’Economia, il pentastellato Alessio Villarosa. “La bozza di decreto, […] è stata inviata agli inizi di agosto alla Conferenza unificata per acquisire la prescritta intesa” ma “in seguito alle interlocuzioni con regioni ed enti locali è emersa la necessità di procedere ad un ulteriore approfondimento” che ha portato a modificare il testo. “Si confida che il perfezionamento del decreto possa avvenire prima della fine dell'anno”.

Ad oggi, però, l’approvazione non è ancora avvenuta. Alcuni comuni italiani hanno bloccato le affrancazioni. Roma, che dopo la sentenza della Cassazione nel 2015 ha visto i suoi uffici subissati di richieste, “sta proseguendo solo con le pratiche più urgenti” in base alle indicazioni di calcolo contenute in una delibera comunale dell’ottobre del 2018, ha fatto sapere l’assessore all’Urbanistica Luca Montuori, anche se questo significa sforare di gran lunga i 180 giorni previsti per dare una risposta. Delle 6mila istanze presentate, ne sono state lavorate un migliaio. Migliaia di persone attendono ancora di capire quale sarà il destino delle proprie case. Case pensate grazie a un piano di edilizia pubblica e con una funzione sociale che in meno di dieci anni si sono dissolte nel mare del libero mercato privato.

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